La povertà non è solo economica e culturale, ma anche una dimensione psicologica che attraversa nel profondo l’animo di chi la conosce e la sta patendo, a qualunque età. Perché conoscere la povertà e affrontare le rinunce che essa comporta ti lascia un segno grande e profondo specie se sei nella infanzia e nell’adolescenza.

Trieste, una giornata come tante in questo dicembre, solo che Francesca (il nome è di fantasia) per pagare le bollette di casa vende i mobili della cameretta dei suoi bambini. È sola, ha tre figli in età scolare e un lavoro precario. Questa povertà diretta della famiglia si conserverà nel ricordo dei bambini che comprendono dolorosamente che il loro spazio vitale (la cameretta) può diventare precario se le esigenze economiche della famiglia ( le bollette di luce e gas) lo richiedono. Se la mamma non ha soldi e la vita diventa improvvisamente incerta, povertà è uguale a mobili che non abbiamo più e forse chissà cosa altro ci toglieranno nel futuro. 

Francesca e i suoi figli sono un simbolo della realtà di questo nostro Paese, non del Sud alla cui povertà ci siamo ipocritamente quasi assuefatti, ma del ricco Sud Est che nasconde le proprie difficoltà nel profondo del suo tessuto sociale ed economico, e che non vuole guardare alla povertà dei giovani e dei giovanissimi, mentre giriamo la testa da un’altra parte non volendo né vedere né sentire, tantomeno fare. Eppure non poche settimane fa il rapporto di Save the Children lo aveva detto chiaramente: il 13,5 % dei giovani è povero, significa che 1 minore su 7 è in povertà relativa che comporta la riduzione della capacità di spesa della famiglia non consente di accedere alle condizioni minime per una crescita sana: meno cibo, riduzione dello studio, delle relazioni sociali, delle attività culturali e sportive; una potenzialità di crescita dimezzata.

 E questo amarissimo fenomeno colpisce anche il Nord del Paese con una incidenza che sorprende: una forbice del 12-14% (nel Friuli di Francesca il 14.2 che su una popolazione scolastica alle primarie di poco più di 45.000 studenti significa che 6.300 studenti poveri e non è poco), su cui le politiche regionali poco fanno e poco hanno fatto, e l’attenuante pandemia non riesce a giustificare l’assenza dell’attenzione delle Istituzioni per il futuro di queste generazioni. 

Ma la povertà non è solo economica e culturale ma anche una dimensione psicologica che attraversa nel profondo l’animo di chi la conosce e la sta patendo, a qualunque età. Perché conoscere la povertà e affrontare le rinunce che essa comporta ti lascia un segno grande e profondo specie se sei nella infanzia e nell’adolescenza, quando i tuoi strumenti per elaborare quello che ti accade intorno sono ancora in fase di costruzione. Lo sanno bene tutte le generazioni passate e quelle contemporanee che sono uscite da una guerra o da un grande migrazione come la migrazione economica in atto dall’Asia e dall’Africa. 

Nessuna madre e nessun padre, in verità, vorrebbe mai che i propri figli conoscano la povertà, ma se questo accade la società tutta non può voltarsi da un altro lato. Perché le famiglie con un solo genitore, con un figlio o con tanti, sono quelli che abbiamo lasciato indietro nei nostri piani per un futuro migliore; e lo abbiamo fatto anche inconsciamente e senza una vera e propria cattiveria e piccineria piccolo borghese che tiene stretto il proprio piccolo gruzzoletto senza curarsi degli altri, semplicemente abbiamo creduto che non fosse un problema strutturale della nostra società ma un temporaneo effetto economico, la cui soluzione abbiamo lasciato alle regole del mercato ( tra tutte la più semplice e che prima o poi questo genitore un lavoro lo avrebbe trovato). Ma così facendo abbiamo condannato i loro figli, che sono il futuro di tutti noi. Quel futuro a cui lasciamo il debito alto del PNRR con il quale stiamo disegnando il nostro breve presente. 

Allora prima di ogni azione il nostro dovere e la nostra responsabilità di uomini e donne va al loro futuro, affinché possano dire che si sono stati poveri ma accanto al loro papà e alla loro mamma, c’eravamo tutti noi, quelli che stanno nelle Istituzioni e quelli che fanno volontariato, e quelli che semplicemente per gli altri ci sono e basta. 

 

Elisabetta Campus – Giustizia e civiltà solidale. Centro studi popolari europei.