Spesso gli anniversari degli scrittori creano un dovere di memoria, ma quando sono vissuti per ricordare il passato diventano occasioni preziose per tornare a riflettere sui protagonisti della nostra vita culturale, rileggerli a distanza di tempo e dare loro una rinnovata attenzione. Era il 25 marzo del 1925 quando a Savannah in Georgia nasceva Flannery O’Connor. Nella ricorrenza del secolo, Romana Petri la ricorda dedicandole un romanzo di grande intensità che ci permette di conoscere da vicino una scrittrice di singolare talento, diventata in America di culto (La ragazza di Savannah, Milano, Mondadori, 2025, pagine. 267, euro 19.50).
Figlia unica di genitori di origine irlandese, la ragazza di Savannah appartiene al profondo Sud rurale, vive in provincia in anni in cui la vita vera sembra concentrarsi nelle metropoli ed è cattolica in una terra detta la Bible Belt, radicalmente protestante. Una vita breve, la sua, morirà nel 1964 a soli 39 anni, segnata dalla stessa malattia che le aveva portato via il padre amatissimo quando lei era appena adolescente. La scoperta della scrittura, il sogno di libertà al tempo dell’Università e poi del prestigioso Iowa Writers’ Workshop, il ritorno ad Andalusia, la fattoria di famiglia circondata da terre e boschi, il rapporto complesso con la madre, che pure le dedicherà la vita restandole accanto fino alla fine. Perché ogni tessera vada al suo posto Petri la accoglie nella sua immaginazione con una cura emotivamente calda ma a occhio asciutto, raccoglie tutti i dettagli rivelatori e incrocia di slancio la sua traiettoria senza cadere nella trappola della malattia e della brevità della vita. Curiosa, stravagante, geniale, insofferente di limiti e regole che non fossero quelli che si imponeva, Flannery da bambina non tollerava l’idea dell’angelo custode e tirava pugni all’aria per mandarlo via. Amava invece circondarsi di polli, galline, oche, anatre e più tardi anche di meravigliosi pavoni che rappresentavano forse una sua idea rassicurante di mondo.
Due romanzi, una manciata di racconti, qualche prosa di riflessione, testi di conferenze, molte lettere e numerose recensioni. È la realtà la protagonista della sua scrittura: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere». Lo scrittore per raccontare deve quindi impolverarsi e rappresentare il mondo con uno stile asciutto perché gli esseri umani, le situazioni, gli eventi possiedono tutte le risorse espressive che servono. A prevalere nelle sue storie sono deformazioni fisiche e psichiche, incompiutezze, fragilità, difetti, disarmonie. L’umanità che sceglie di raccontare somiglia forse ai suoi volatili da cortile, capaci di sollevarsi da terra ma incapaci di volare in alto. Dall’informe al deforme il passo è brevissimo e si concretizza in storie dure, disperate, brutali, in una quotidianità pesante e stanca raccontata con una penna impietosa che penetra come una lama.
Nel raffigurare la condizione umana O’Connor non copre, non finge, non orna e certamente non si propone di confortare il lettore. Del resto, come diceva Georges Bernanos, «le voci che ci liberano non sono quelle che ci tranquillizzano e ci rassicurano». O’Connor non si ferma a questa scelta di raccontare il mondo. «Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica». Così vicina alla terra e insieme così vicina al cielo, una prossimità al divino e una presenza salvifica della Grazia che agisce per vie nascoste, sotterranee ma che irrompe con la forza di una detonazione. O’Connor non mette la scrittura al servizio di Dio, ma chiede a Dio di concederle il dono della scrittura, come nella citazione che Petri sceglie di porre in esergo. Il poeta Attilio Bertolucci parlerà di «folgorazione» davanti alle sue pagine e non sarà il solo.
«Più a lungo guardate un oggetto e più mondo ci vedrete dentro» diceva O’Connor. Ed è proprio questo sguardo ampio, paziente, lucido, capace di sbaragliare gli orizzonti d’attesa del lettore, il massimo punto di congiunzione con Petri che, con una scrittura vibrante ed espressiva, riverbera l’ammirazione per il talento e la genialità di questa scrittrice e ne restituisce voce e pensieri. Come nelle campiture di un grande affresco Petri la insegue, la trattiene, la lascia andare, torna a rincorrerla e intanto dipinge, cesella, sbalza, aggiunge infinite tessere di mosaico. E racconta la ragazza di Savannah che aveva fatto della scrittura un ponte con il Cielo, ma che si rammaricava di non riuscire ad amare Dio come avrebbe voluto: «Caro Dio (…) sei la falce sottile di una luna crescente e io l’ombra della terra che impedisce di vedere la luna nella sua interezza».
Fonte: L’Osservatore Romano – 24 Marzo 2024
Titolo: «Più a lungo guardate un oggetto e più mondo ci vedrete dentro»
Autrice: Francesca Romana de’ Angelis