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mercoledì, 21 Maggio, 2025
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La Resistenza sullo schermo: tra memoria, cinema e identità nazionale

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani (Piero Calamndrei).

Facile, oggi, ripercorrere con la memoria la storia partigiana degli anni 40 del secolo scorso. Spesso e volentieri ci giungono immagini sbiadite di quei volontari che tanto hanno lottato per la libertà. Sembra quasi una ricostruzione degli eventi. Anche se così non è. Le formazioni partigiane storicamente sono state raccontate da testimoni presenti agli eventi.

Sembra di conoscere ogni particolare. Sembra di essere stati tra quelle montagne insieme alle valorose compagnie di uomini che avevano preso la residenza su di esse.

Questo perché il cinema e la letteratura ci hanno dato una chiave per aprire quelle stanze segrete ed hanno ci hanno dato la possibilità di ricostruire gli eventi in maniera chiara.

Una testimonianza su cui è stata costruita l’identità dell’Italia.

E se storicamente conosciamo ogni dettaglio fin della nascita del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), a Roma.

Questi studi diventano più chiari quando vengono raccontati come memoria storica.

Come nel documentario Nascita di una formazione partigiana firmato da Corrado Stajano e Ermanno Olmi nel 1973.

In quei fotogrammi possiamo vedere come nello studio dell’Avvocato Duccio Galimberti a Cuneo ebbe inizio la resistenza piemontese. Per passare a Madonna del Colletto, sopra Valdieri dove questi uomini si riunirono il 12 settembre. 

Un documentario straordinario che rievoca sensazioni e riporta alla luce memorie sbiadite.

Ma se sembrava ormai una narrazione storica nel 1973 perché parlare oggi di tali avvenimenti?

A questa domanda risponde lo stesso Olmi: “Io credo, come dicevo prima, che la storia sia la fonte più utile per poterci intendere sul presente. La cosa importante, però, è riproporre la storia in funzione della necessità attuale; voglio dire che non possiamo pretendere che i giovani partecipino alla conoscenza di questi avvenimenti con il sentimento uguale a coloro che lo hanno vissuto. Solo riproponendo un fatto storico come effetto emblematico da collegare a fatti analoghi attuali, possiamo capire il valore della lettura storica degli avvenimenti”.

Mentre Arrigo Boldrini ne “l’Unità” del 24 aprile 1949 scrive: “La lunga guerriglia di due anni fu epopea di popolo e nel quadro della storia nazionale non può essere considerata se no n come uno dei periodi più luminosi del nostro paese Essa non è un fatto d’arme isolato, non è solo una battaglia con un epilogo vittorioso, ma è un movimento profondo che unì tutti gli italiani degni di questo nome per salvare il salvabile e per gettare le basi di Un nuovo stato democratico, repubblicano, progressivo”.

Una guerra raccontata e una resistenza raccontata da film Italiani, tedeschi, Inglesi, francesi, americani, sovietici. Film con attori e con notizie. Chi non ricorda il famoso Notiziario Luce in Italia, per non parlare dei meno conosciuti, almeno da noi italiani dei Cinealbum sovietici curati da Pudovkin, i Metro News, Paramount News, Unlversal News, e un Pathé News con uno speaker d’eccezione: l’allora maggiore John F. Kennedy.

E da John Huston che con il suo “The battle of San Pietro” girato per il ministero della Guerra produsse un documentario molto interessante perché per la prima volta si documenta la guerra non solo da parte di chi la combatte, come per i soldati americani, ma anche da parte di chi soprattutto è costretto a subirla ovvero da parte dei civili.

Ma chi fu il primo ad occuparsi della resistenza italiana?

Documenti cinematografici reali dell’epoca girati da don Pollarolo, Claudio Borello e Michele Rosboch, con le macchine fotografiche portatili dell’epoca, fanno da contrappunto alla rivisitazione odierna dei ricordi di quel tempo.

Disse Paolo Gobetti : “Gli inizi della guerra partigiana non sono evocati né con retorica né con vuoti propositi festosi. La discussione è incentrata sui problemi e sull’entusiasmo di questi primi tentativi e scava a fondo oltre i ricordi immediati di questi primi giorni e delle prime azioni di combattimento per indagare sui problemi dell'”apprendistato” in questo nuovo tipo di lotta, le incognite della vita quotidiana, le conseguenze talvolta dolorose dell’applicazione della giustizia e la creazione di nuovi ideali concreti“.

E se è vera questa definizione l’artefice più pregnante del periodo dal punto di vista cinematografico è sicuramente don Pollarolo.

Gianni Rondolino racconta che Gobetti, quando si accingeva a girare film come “Le prime bande”, aveva a modello proprio i Momenti di vita e di lotta partigiana del prete alessandrino. “

Scriveva Gobetti “A me pare che questa opera cinematografica di don Pollarolo sia un qualcosa di estremamente interessante, in tutti i suoi aspetti, proprio per il fine primo di cui si parte. È un discorso piuttosto importante e che si è affrontato altre volte a proposito di cinema militante. Qui è un caso sui generis, naturalmente; normalmente noi parliamo di cinema militante al servizio della rivoluzione, definizioni più o meno esatte. Ma la sostanza di questo cinema è che vuole intervenire sulle cose, il presupposto è che il cinema non è inteso come spettacolo, ma veramente come strumento per intervenire in una realtà. In questo senso il discorso si applica anche a questo film di don Pollarolo” (P. Gobetti

Lo stesso don Giuseppe ebbe a dire di sé: «Avevo allora una forza atletica notevole e resistevo alla fatica, mi sentivo proprio un vero facchino, alla scuola di don Orione che di facchini ne ha formati tanti». E nel 1970, durante una lunga conversazione col critico cinematografico e regista Paolo Gobetti raccontò: “Ero sempre in prima linea, mai con un’arma, con il mio libro di preghiere e con la macchina cinematografica: era una Pathè Baby, molto piccola, la tenevo in tasca con estrema facilità”. E continuava: “gli strumenti del mio mestiere sono questi: ecco, io me la sviluppavo su in montagna la pellicola, non potevo mandarla a sviluppare in città, vero? Erano quattro cassette come questa, una tavola di bachelite intorno alla quale si avvolgevano i nove metri del film della macchina da presa e poi si sviluppava, con dei successi che portavano all’entusiasmo i giovani, perché nel giro di un’ora, quando il tempo era asciutto, riuscivamo a vederci la scena girata»

Ma chi era questo prelato coraggioso?

I fascisti scrissero di lui sui muri di Tortona: “meglio un giorno da leoni che 200 giorni da Pollarolo”. Discepolo di Don Luigi Orione, condivise con lui i tempi della nascita della Piccola Opera della Divina Provvidenza. Ma è durante la dittatura Fascista che il cardinale di Torino sceglie Pollarolo come sacerdote per la pastorale operaia della città. E per tutta la sua vita rimarrà un prete operaio.