Anche in questa occasione siamo stati tratti in inganno dai sondaggi, peraltro subito suffragati (a differenza di ciò che accade in casa nostra dove l’astensionismo è saldamente vincente da anni) dalla elevata partecipazione dei cittadini al voto per l’elezione del 47° Presidente USA. Tuttavia più che il previsto testa a testa il risultato si è rivelato un voto di ‘pancia’ ed è stato netto e significativo, oltre ogni valutazione sulle sue ricadute.
La vittoria di Trump è stata schiacciante e ha ammutolito (mentre scrivo tutto tace dal fronte democratico) gli avversari. Si può ragionevolmente ascrivere – come sottolinea un profondo conoscitore del mondo americano come Federico Rampini – l’esito del voto più agli errori del partito democratico che ai meriti personali del tycoon e del suo entourage. La candidatura di Kamala Harris è emersa come unica soluzione temporalmente possibile dopo i tentennamenti di Biden, come avvicendamento interno di leadership, ma senza l’investitura di un confronto congressuale, inoltre gli endorsement dei Clinton e degli Obama sono apparsi tardivi e coreografici, senza alcun sostanziale contributo ad un programma elettorale che sapesse rispondere alle domande emergenti da un Paese che si estende per sei fusi orari, nella sua complessità territoriale, etnica, di target e istanze sociali.
Alcuni temi come l’immigrazione, le guerre in atto, la politica dei dazi e quella fiscale sono stati sottostimati. E mentre c’è chi si strappa i capelli immaginando conseguenze catastrofiche verso un possibile nuovo ordine mondiale (a cui contribuisce certamente il concomitante compattamento dei Paesi aderenti al Brics) va rilevato che indubbiamente – ascoltate certe premesse del rieletto Presidente – qualcosa cambierà, per l’America, per l’Europa, per la NATO e nel posizionamento USA nello scacchiere internazionale e prevedibilmente non si tratterà di quisquilie. Certe osservazioni delle cancellerie e dei governi alleati sono condivisibili, altre dovrebbero farci riflettere sul fatto che la questione – con tutti i suoi punti nodali e i suoi corollari – riguardava le scelte degli elettori americani molto attenti ad alcuni temi dirimenti che interessano il futuro del Paese ma intanto anche l’ordinaria quotidianità.
Alla più grande democrazia dell’Occidente è stato chiesto di esprimersi in un momento storico in cui la protezione economica, il lavoro e i salari, la sicurezza dell’ordine sociale e gli interessi diretti e palpabili dei cittadini statunitensi erano temi di fatto trasversali agli opposti schieramenti: l’abilità di Trump è stata quella di dare risposte precise a questi temi anche se in modo persino ultimativo e potenzialmente esasperato. L’immigrazione e le guerre sono stati per il tycoon motivo per riaffermare una già espressa inversione di rotta: come osserva il Direttore del Centro Studi internazionali Andrea Margelletti se dovesse venire meno il sostegno economico e di armamenti all’Ucraina ciò non significherebbe una rinuncia della Russia a continuare le ostilità, peraltro mai interrotte (siamo oggi al 986° giorno dall’inizio “dell’operazione militare speciale”) ed ora rafforzate dall’ingresso nel Kursk di 11 mila soldati nordcoreani inviati da Kim a sostegno di Putin.
Se Trump – non credo drasticamente – riducesse l’appoggio a Kyiv si porrebbe per l’Europa una domanda cruciale: potrebbe l’U.E. intervenire con i propri eserciti per supplire il venir meno del sostegno USA, al fine di evitare una possibile mira espansionistica in Europa da parte di Mosca? Le immediate congratulazioni di Zelensky al neo Presidente USA hanno il sapore di una implicita perorazione: non essere abbandonati ad un destino infame che ora si paventerebbe in tutta la sua drammaticità: l’Ucraina resiste (ma bisogna chiedersi fino a quando) ma è esausta e devastata dall’invasore. Peraltro – silente Putin – Medvedev e Peskov si sono affrettati a riaffermare distanze da guerra fredda con gli USA. E oltre il muro di Tijuana che separa gli Stati Uniti dal Messico, oltre l’immigrazione dilagante, Trump in campagna elettorale ha promesso drastiche misure di espulsione.
Sarà interessante inoltre osservare come i repubblicani, che hanno conquistato anche il Senato, intenderanno – se lo faranno – legiferare sul tema dell’uso delle armi in un Paese in cui il primo fucile viene regalato a Natale ai bambini di dodici anni. Terranno banco certamente i rapporti con l’Europa e le singole nazioni: la totalità dei Governi (non solo Orban) si sono affrettati ad anticipare con favore una continuità di rapporti nella cooperazione internazionale, nelle alleanze, nelle scelte commerciali e nella stessa appartenenza comune alla NATO. Trump ha più volte citato la pace come obiettivo futuro – ma non procrastinabile – della Casa Bianca, ha promesso benessere: “sarà l’età dell’oro dell’America”. Restano sul campo, come in una scacchiera che aspetta mosse imprevedibili, primazie e antagonismi inconciliabili: Trump loda Netanyahu e ne è lodato ma Putin invia armi in Iran, mentre Cina e India fanno parte dei Brics, l’U.E. è angustiata da conflitti interni.
La politica dei dazi che il tycoon intende adottare rilancerebbe produzione e consumi interni: resta da vedere se la faccenda riguarderà i Paesi ostili come la Cina o anche quelli europei. La riedizione di ‘America first” si giocherà stavolta a fronte di scelte di possibile isolazionismo e tutti i partners mondiali ne sarebbero puniti. La rielezione di Trump è una lezione per tutti: non sul piano etico (ogni popolo – se può, come in democrazia accade – sceglie da chi essere governato, per questo suonano retoriche le parole di disappunto di certa politica) ma su quello di un pragmatismo estremo. Anche sotto questo profilo, lezione è e lezione rimane.