La strana libertà di stampa all’italiana

Il “verminaio” riconducibile all’ormai noto spionaggio di molti vip e non solo vip, ripropone nuovamente il tema di che cosa significa concretamente nel nostro paese la cosiddetta libertà di informazione.

Ci sono due libertà di stampa nel nostro paese. L’una è quella scolpita nella Costituzione repubblicana che rappresenta una pietra miliare della democrazia italiana. L’altra, meno nobile ma purtroppo molto praticata, va sotto il nome – seppur un po’ volgare e me ne scuso – di “libertà di sputtanamento”.

L’una, la prima, è un elemento costitutivo, decisivo ed essenziale che misura l’ancoraggio di un paese ad una cultura democratica, liberale e costituzionale. L’altra, la seconda, è un metodo che persegue scientificamente – seppur dietro a nobili principi – la demolizione della persona, la sua criminalizzazione politica e culturale, e di norma, la espone al pubblico ludibrio con sentenze inappellabili e giudizi sommari del tutto arbitrari.

Ora, il “verminaio” – per usare le parole del procuratore di Perugia Cantone – che è emerso in questi ultimi giorni e riconducibile all’ormai noto spionaggio di molti vip e non solo vip, ripropone nuovamente il tema di che cosa significa concretamente nel nostro paese la cosiddetta libertà di informazione. Perché un conto è dar notizia di ciò che capita realmente accompagnato, anche dalla ormai nota partigianeria e faziosità che caratterizzano gli organi di informazione nel nostro paese, sia della carta stampata e sia, e soprattutto, dei vari talk televisivi sempre più settari e di parte; altra cosa, e radicalmente diversa, è l’attacco sistematico e permanente alle persone, alla loro dignità, alla loro storia e al loro profilo. Il tutto condito da un giustizialismo senza limiti e senza confini.

E allora sorge spontanea una semplice domanda. E cioè, quale dei due metodi oggi prevale? Al riguardo, non c’è alcun dubbio. Il secondo, cioè quello che fa dell’attacco violento e pretestuoso alle persone la sua ragion d’essere costitutiva. Il tutto, come da copione, sempre corroborato da nobili principi e solenni proclami riconducibili al dogma laico che il giornalista deve “pubblicare tutto ciò che sa” a prescindere da qualsiasi regola deontologica e professionale. E quindi, e di conseguenza, considerando del tutto irrilevanti le intoccabili “fonti” da cui proviene la notizia o il fango.

Un malcostume, questo, che ormai accomuna la stampa nazionale e, per emulazione, anche quella locale dove la demolizione delle persone è diventato quasi uno sport e una prassi intoccabili. È sempre e solo perché, e giustamente, la “libertà di informazione è sacra”. Ecco perché siamo ormai arrivati ad un bivio. Ovvero, o proseguiamo con le prediche periodiche sulla libertà di informazione che non trovano, però, un oggettivo riscontro nella realtà concreta nei racconti quotidiani fatti prevalentemente di attacchi alle persone e alla loro dignità; oppure si inverte decisamente la rotta e chi dovrebbe presiedere – si fa per dire – ad una corretta e trasparente libertà di informazione nel rispetto delle regole e delle stesse norme deontologiche si fa sentire con maggior vigore e forza senza obbedire solo e soltanto a disegni politici talmente noti e collaudati che non fanno neanche più notizia.

‘Tertium non datur’ si potrebbe dire. Saranno soltanto i fatti, quindi, a dirci quale delle due linee prevarrà. Tutto il resto appartiene solo allo scontro permanente tra opposte tifoserie politiche e culturali con tanti saluti allo sbandierato, e sempre più ipocrita e fazioso, “giornalismo di inchiesta”.