Il riconoscimento russo delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk pone l’occidente di fronte al fatto compiuto. Il rischio è di trovarsi di fronte ad un’alternativa drammatica: abbandonare l’Ucraina al suo destino; oppure sostenerla in guerra attraverso la modalità delle sanzioni economiche, di fatto controproducenti per le economie europee.
Ora che Putin ha dato ufficialmente il proprio supporto agli indipendentisti ucraini del Donbass affinché si possa costituire uno stato cuscinetto, inclusivo della Crimea, fra la Russia e l’Ucraina (che rimane a suo dire parte integrante della Russia, affermazione ribadita a futura memoria) appare in tutta la sua concretezza la tesi di Mosca: a nessun costo la NATO può allargarsi ulteriormente ad est (e così pure la UE, implicitamente). Da qui le “linee rosse” tracciate e dichiarate non valicabili.
Il riconoscimento delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk pone l’occidente di fronte al fatto compiuto, diminuendo drasticamente i margini per una trattativa che comunque sarebbe stata molto difficile e complessa. Il rischio è di trovarsi di fronte ad un’alternativa drammatica: lasciar correre e quindi sostanzialmente abbandonare l’Ucraina al suo destino; oppure sostenerla in una guerra attraverso la modalità delle sanzioni economiche, assai drastiche e proprio per questo al tempo stesso controproducenti per le economie europee.
Un altro rischio – plasticamente evidenziato dalla non casuale presenza di Putin alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Pechino – è che la Russia stringa un’alleanza con la Cina. Il problema non sarebbe, per l’Occidente, l’improbabile rinascita di un “fronte rosso”, un novecentesco pericolo comunista ormai inverosimile. Bensì un fronte autocratico che non crede nel concetto stesso di democrazia e che è convinto che il sistema valoriale dell’occidente stia entrando in una crisi irreversibile che ne comprometterà anche lo sviluppo economico.
È questo il pericolo mortale che paventa Biden. Sul quale occorrerebbe una riflessione più profonda di quelle elaborate sin qui, a causa forse dell’indebolimento che presso gli occidentali, europei in primis, hanno palesato gli Stati Uniti dopo la cialtronesca presidenza Trump ma anche dopo la disastrosa ritirata afghana.
Una Russia che ambisce ad un ruolo strategico globale, non solo regionale (come ritenevamo tutti sino a non molto tempo fa): intesa dunque da un lato a rafforzare la propria presenza sul suolo europeo e dall’altro a costruire relazioni con il principale dominus asiatico.
È il quadro generale, oltre la questione ucraina, che porta a considerare con più preoccupazione l’allarme del Presidente americano. E lo si nota meglio aprendo un atlante geografico, cosa che invito il lettore a fare. Del resto la geopolitica – disciplina una volta riservata agli iniziati e ora invece entrata nel linguaggio pubblicistico, a volte anche troppo semplicisticamente – richiede una consultazione attenta delle mappe geografiche.
Negli ultimi 20 anni la Russia di Putin ha con decisa determinazione operato per allargare il proprio spazio vitale, rifiutando di rimanere confinata al suo pur enorme territorio esteso su due continenti. Dapprima ha stroncato le ambizioni indipendentiste dei popoli caucasici, a iniziare dai ceceni. Poi ha invaso parzialmente la Georgia. Nel 2014 si è presa la Crimea (conquistata da Caterina II la Grande e ceduta agli ucraini due secoli dopo da Khruscev: ed infatti Putin, nell’ormai celebrato saggio pubblicato la scorsa estate ha rivendicato la comunanza di russi e ucraini, un unico popolo a suo dire).
L’area di azione – sempre militare e mai solo politica – si è allargata altresì al Mediterraneo, col sostegno decisivo in Siria a Bashar Assad che fra l’altro ha consentito il rafforzamento delle basi aeronavali già presenti in loco sin dai tempi dell’URSS. E successivamente col sostegno in Libia (in questo caso utilizzando i mercenari della Wagner, generosamente retribuiti) al generale Haftar, padrone della Cirenaica, marca orientale di quella nazione mai stata tale se non formalmente sotto la feroce dittatura di Gheddafi. Anche qui acquisendo un’area d’azione e un accesso al mare di sicuro interesse strategico. E pure al sud, verso il Sahel e i suoi disgraziati Paesi, dal Mali sino alla Repubblica Centrafricana, sempre tramite la Wagner, l’azione è volta ad acquisire qualche nuova base operativa oltre che influenza politica (e commerciale).
Non è finita. Perché negli ultimissimi anni si sono aggiunti il sostegno al dittatore bielorusso Lukashenko, in realtà mai troppo amato ma tenuto in piedi in quanto baluardo a ovest sempre storicamente essenziale ogni qualvolta qualcuno ha cercato di invadere la Russia. E ancora: il sostegno, recentissimo, al regime kazako insidiato da una protesta popolare soffocata grazie all’intervento di truppe russe appositamente inviate in loco. Anche in questo caso, un Paese enorme che fa da divisorio ad est, laddove si estende la Cina. Infine non si dimentichi l’intervento “pacificatorio” nell’infinita contesa nel Nagorno-Karabach, che ha dato a Mosca un ruolo decisivo in quella regione, cui peraltro ambisce anche la Turchia, altro attore che desidera ridarsi un profilo geopolitico regionale di una certa ambizione.
I 140.000 effettivi agli ordini del generale Gerasimov schierati ai confini ucraini sono dunque parte di un piano dilatatosi nel tempo e nello spazio, che ha un solo obiettivo: tornare a fare della Russia – come fu l’Unione Sovietica – un attore di primaria grandezza planetaria. Convinta, per di più, che le profonde divisioni interne agli Stati Uniti ne infiacchiranno le capacità espresse all’esterno, a cominciare proprio dalla loro presenza in Europa. Un’Europa a sua volta debole e divisa, che ha fame del gas che arriva da oriente.