Il giovane Martinazzoli, conosciuto ad Orzinuovi per la sua serietà e preparazione, nel 1953 va in giro ad attaccare manifesti. O almeno così piace immaginarlo, come un militante di altri tempi. La campagna elettorale mette a dura prova la tenuta della maggioranza quadripartita, uscita vincitrice il 18 aprile di cinque anni prima. Stavolta è diverso, De Gasperi ne esce sconfitto perché la sua riforma elettorale, bollata come “legge truffa” secondo la definizione che Stalin avrebbe suggerito in un colloquio a quattr’occhi con Pietro Nenni, non passa. Il paradosso è che la coalizione delle forze di governo avrà comunque la maggioranza assoluta dei seggi, senza tuttavia superare in percentuale la fatidica soglia del 50 per cento. È la fine del centrismo, ed anche la fine di De Gasperi: un ultimo tentativo di formare il governo gli riserverà l’amarezza della bocciatura in Parlamento. I partiti alleati, per motivi diversi e convergenti, ritenevano a quel punto necessario un diverso rapporto tra laici e cattolici nel governo del Paese.
I manifesti di Martinazzoli non sono quelli della Dc. A 22 anni, il futuro (e ultimo) segretario sceglie infatti di schierarsi con Alternativa Democratica Nazionale, il partito fondato dal liberale Corbino pochi mesi prima delle elezioni. Magro per Alternativa il responso delle urne, appena lo 0,3% sul piano nazionale, ma quanto basta, unitamente ai voti raccolti da altre minuscole formazioni politiche, per far deragliare il progetto di stabilizzazione del “polipartito” (Dc, Psdi, Pri, Pli). Era quanto prefigurato dall’iniziativa di De Gasperi, con la protezione di un “centro” favorito dall’attribuzione del premio di maggioranza, sostanzialmente libero dall’ipoteca delle “estreme” (non solo a sinistra, ma anche e soprattutto a destra).
Errori di gioventù? Martinazzoli non ne ha fatto mai menzione. Dopo quell’avventura entra nella Dc, si fa presto valere, assume ruoli importanti: prima assessore ad Orzinuovi e dirigente di partito a Brescia, poi Presidente della Provincia. Siamo nel 1970, due anni dopo approderà a Montecitorio. La professione di avvocato gli aveva permesso d’inseririsi in città nell’ambiente della buona borghesia cattolica, dove a tessere i fili delle alleanze e delle iniziative nel tessuto civile ed economico arriverà presto il notaio Giuseppe Camadini, pur nel contesto di una storia locale di matrice laico-risorgimentale che aveva al centro la figura di Giuseppe Zanardelli. Brescia vivrà per tutto il Novecento, anche nel periodo del Ventennio fascista, sull’equilibrio tra cattolici e liberali. Neppure la Dc, forte in città e in provincia di un largo consenso popolare, ne potrà ignorare la valenza.
Entrare nella Dc significava, in via preliminare, mettere piede in una corrente. La vicenda di Martinazzoli non fa eccezione, visto che il punto d’attrazione sarà quello della “sinistra degasperiana”, vale a dire la Base. Questa nuova sinistra, sorta sulle ceneri del dossettismo, è un luogo di confronto permanente: l’ideale per un avvocato penalista, amante del teatro, abituato dunque alle arringhe nei tribunali e alla malia del palcoscenico. De Mita un giorno chiederà ad Albertino Marcora, uno degli esponenti nazionali della corrente e capo dei basisti lombardi, un giudizio su di lui: “Mino? È un calligrafo della politica”. Insomma, un fine cesellatore di perifrasi e aggettivi in un linguaggio perlopiù sofisticato. Parlava sempre a braccio, ma non sbagliava una consecutio temporum. Non era mai, il suo, un discorso improvvisato (anche se così appariva in virtù di battute e silenzi che trasmettevano ad arte un senso di immediatezza e casualità). Eppure, in questo o quel passaggio poteva accadere che il pensiero risultasse ostico, avvolto in un linguaggio oracolare, per molti aspetti allusivo. Tuttavia, quando finì di parlare nell’ultimo congresso del 1989, celebrato in anticipo di qualche mese rispetto alla caduta del Muro di Berlino, il Palasport dell’Eur venne giù: venticinque minuti di applausi, sicuramente non orchestrati; commozione tra i più giovani per l’esortazione a “non pensare il futuro come ritorno, ma di pensare al nostro ritorno al futuro”; rispetto di una platea smaliziata che pure avvertiva in quel momento tutto il suo carisma.
Perché Martinazzoli amava la parola? Abbiamo detto della sua predilezione per il teatro, ma forse c’è qualcosa di più. Anzi, c’è senz’altro qualcosa di più; un qualcosa di più profondo e ben coltivato nell’intimo, evocativo di un appello etico. Ecco, gli si poteva attagliare il monito di Huitzinga: “Con la svalutazione della parola, cresce, in proporzione diretta, l’indifferenza verso la verità”. Non lo fece mai suo, forse la frase non la conosceva, ma l’avrebbe condivisa certamente. Ma cos’è la verità? Martinazzoli resta un politico, sempre, anche quando antepone alla politica una motivazione più remota. La verità è una ricerca faticosa, per questo esige misura e senso della realtà. Più che la scolastica adesione alla dottrina sociale della Chiesa, vale per Martinazzoli l‘autonoma capacità di mediazione tra messaggio evangelico e impegno politico. Siamo nel circuito della scuola liberale cattolica, laddove primeggia la figura del Manzoni grande letterato e del Manzoni sincero patriota (come non ricordare il suo voto da Senatore a favore del passaggio della capitale da Torino a Roma, anche se in contrasto con il Vaticano?).
Manzoni e Rosmini, dunque, sono i fari di questo suo cattolicesimo liberale che pur sensibile alle istanze di moderazione non è allineato, sul piano strettamente politico, alla tradizione moderata lombarda, quella ad esempio di un Filippo Meda. Soccorre piuttosto, nelle citazioni ricorrenti in varie circostanze, la feconda lezione del Tocqueville a riguardo della “misura del potere”; una misura necessaria ad evitare che la libertà, facendosi assoluta, trascenda nell’arbitrio e la democrazia, ergendosi a pura sovranità di numeri, devii nel dispotismo della maggioranza. Qui sta il punto più sensibile della visione che abbraccia il pensiero di Martinazzoli: se la politica non è tutto, perché prima viene la vita, allora anche il potere, che della politica è solo strumento, sebbene decisivo, non è tutto. C’è un orizzonte etico, in sostanza, che rende l’agire umano confacente a un bisogno di promozione, sia per la persona in quanto tale che per la comunità che ne accoglie la presenza e l’operato.
S’è detto di lui che era uno “strano democristiano”, diverso dagli altri, a buon conto per la distanza dai giochi di partito e dalle trame di potere. Eppure fu parlamentare di lungo corso e ministro per tre volte, a dimostrazione della capacità di porsi, nei momenti più significativi della vita politica italiana, come punto di riferimento essenziale di un mondo che andava misurando le difficoltà della Dc e per questo incominciava a guardare avanti, fuori dall’orbita della rappresentanza di partito. Questa spinta, infine, lo portò nella stanza più importante di Piazza del Gesù. Doveva essere lui, il volto pulito di una Dc ormai sotto scacco dei magistrati di Mani Pulite, a traghettare lo Scudo Crociato oltre le colonne d’Ercole della Prima Repubblica. La sua storia di leader politico è fatalmente concentrata nel poco tempo che ebbe a disposizione per questa impresa di auto rigenerazione della Dc.
Volle tornare alle origini. A dargli conforto con la sua autorevolezza di storico del popolarismo e di massimo custode della memoria di Sturzo fu Gabriele De Rosa. Il 18 e 19 gennaio, le date di fondazione del “vecchio” Ppi, nacque solennemente il “nuovo” Partito popolare. Pochi mesi dopo si svolsero le elezioni politiche anticipate e l’alleanza elettorale con Segni si attestò su un decorosissimo 15-16 per cento, considerato tuttavia deludente da Formigoni e Buttiglione. E si dimise, con un fax, destando stupore e irritazione. Spiegò così quel gesto clamoroso: “Volendo analizzare criticamente l’esito elettorale, sull’Avvenire Buttiglione chiedeva senza perifrasi: “Cosa fa un generale che ha portato ad una disfatta? Va a casa”. A caldo, mi son sentito di replicare: “Cosa fa Martinazzoli, che non è un generale, e ha tanta voglia di andare a casa? Va a casa”. Questo è tutto, cos’altro dovevo fare?”.
Doveva resistere, anche per i molti che avevano condiviso la sua battaglia. A maggior ragione possiamo dirlo oggi, con lo sguardo rivolto al passato e con la mente aperta al domani, stilando all’occorrenza un rendiconto che serva possibilmente alle dinamiche future. Martinazzoli era ripartito da Sturzo, ma ha fatto come De Gasperi: se il primo aveva raccolto i cattolici in un partito moderno, dirigendo il flusso spontaneo di tante energie sparse sul territorio verso un esperimento unitario, senza eccessive mediazioni; l’altro aveva plasmato la Dc come una nuova proiezione del cattolicesimo politico, costruendo un ponte tra generazioni diverse e amalgamando le diversità, sotto molteplici aspetti. Con lo spirito di chi non è stato degasperiano – lo abbiamo visto su tutt’altre sponde nel 1953 – Martinazzoli riprende tuttavia il lavoro che fece proprio De Gasperi: mise insieme, come il leader trentino, i “pezzi” di un grande mosaico, chiamando al suo fianco chi doveva rappresentare il legame con la Cisl (Marini) e le Acli (Bianchi), con Cl (Buttiglione) e l’Azione cattolica (Monticone), con l’ambiente della Cattolica (Balboni) e le donne più legate alla Chiesa del rinnovamento post conciliare (Maria Eletta Martini). E altro ancora.
Cosa gli si rimprovera, di non aver accettato la proposta di accordo lanciata da Berlusconi? O di aver sottovalutato la polarizzazione della politica a seguito della riforma elettorale di tipo maggioritario? O di aver decapitato, infine, molta parte della vecchia classe dirigente, indebolendo la presa del partito sul territorio e generando un vuoto di rappresentanza? Sono le critiche che più facilmente gli vengono mosse quando, oggi più di ieri, ci si interroga sulla fine della Dc. È un dibattito aperto. Resta il fatto che Martinazzoli colse nel successo del Cavaliere un elemento strutturale di degenerazione – non a caso adattò al fenomeno berlusconiano il giudizio di Gobetti sul fascismo come “autobiografia morale” della nazione – e tracciò per questo una linea di demarcazione a salvaguardia dell’identità dei popolari. Fece dunque una battaglia che costò sacrifici, lasciando tuttavia in eredità il fatto dell’autonomia come requisito essenziale di una politica di centro (per la quale fu prodigo di spiegazioni innovative rispetto al lessico sturziano e degasperiano). Certo, di fronte all’urgenza di una svolta moralizzatrice fu impietoso nell’azione di sradicamento della malapianta della corruzione all’interno del partito, ma non agì con la faziosità di chi sfrutta le emergenze per l’utile suo e degli amici. Insomma, non ne trasse vantaggio.
A Martinazzoli si deve riconoscere il merito di una tenace e originale “reinvenzione” – cosa che Moro avrebbe apprezzato – dell’esperienza democratico cristiana. Nel suo orizzonte c’era la traversata nel deserto e quindi, concretamente, l’inevitabile scelta dell’opposizione. Era convinto che i valori di una grande tradizione, dove confluivano oltre i “classici di partito” gli apporti di Rosmini e Manzoni – lo si di diceva sopra -, di Tocqueville e Capograssi, di Mounier Maritain e Mazzolari, sarebbero tornati alla luce. Il suo realismo non escludeva la speranza. Negli ultimi anni andò in una scuola a parlare di Dante e agli studenti, sulla scia del Poeta, invitò a riflettere sul fatto che “se possiamo parlare di laicità dello Stato, questo si deve al cristianesimo”. Realismo e speranza, dunque, ma anche rivendicazione orgogliosa dell’essere dalla parte giusta, da democratici e da cristiani, senza la corazza dell’integralismo o peggio ancora dell’arroganza. Questo stile, legato strettamente alla sostanza, rende attuale e stimolante la testimonianza politica di Martinazzoli.
Fonte: Mino Martinazzoli e la reinvenzione del cattolicesimo politico