La transizione geopolitica come crogiolo di una politica di centro

La politica non può permettersi di non vedere come gli equilibri mondiali stiano profondamente cambiando, con inevitabili ripercussioni su diritti, livelli di vita e sicurezza dei cittadini.

La tenacia con cui Tempi Nuovi si adopera per l’unità del Centro appare quanto mai opportuna in una fase in cui la domanda di una politica seria, affidabile ed equilibrata sembra procedere addirittura in modo spontaneo, risultando così forte, almeno tra l’elettorato del settore medio del ceto medio (perché i ceti medio-bassi e popolari si dividono ormai, purtroppo e forse anche un po’ per nostra responsabilità, tra astensione e populismi di vario genere, tra M5S, Lega e FdI), al punto da far pensare che il consenso vi sarà comunque. E tanto vale allora tentare di superare ingiustificabili personalismi, come quello fra Renzi e Calenda, per raccoglierlo unitariamente questo consenso.

Accanto alla preoccupazione per l’unità il percorso di costruzione del centro deve tenere conto di un altro dato. Siamo in una fase in cui, come ha osservato Marco Follini, la politica estera è divenuta il motore di quella interna anche per la formazione delle alleanze di governo. I due fronti di guerra, che ci riguardano, aperti attualmente, ci ricordano quanto siano importanti le logiche di schieramento. E tuttavia la mera opzione atlantista e pro-Israele (nella prospettiva della soluzione a due stati del conflitto con il popolo palestinese) che trova ampio consenso tra pressoché tutte le forze politiche italiane, non sembra, da sola, sufficiente a caratterizzare una politica di centro che sia all’altezza delle sfide del momento.

Perché la transizione geopolitica in corso pone la necessità per il Paese, per l’Ue, per l’Occidente di definire una nuova politica internazionale. In questo senso ora è necessario ma non più sufficiente dire: stiamo con l’America. Perché gli stessi Stati Uniti sono alla ricerca di una loro collocazione nel mondo multipolare, non senza spinte di segno opposto che mirano a perseguire con ogni mezzo la conservazione dell’unipolarismo che fu, con un azzardo che potrebbe rivelarsi nefasto per la pace e la stabilità nel mondo intero. Un processo che implica una medesima e speculare ricerca di un ruolo per l’Unione Europea nel mondo, diverso e distinto da quello degli Usa.

Credo che sia essenzialmente a un simile livello che si gioca la costruzione di una politica fondata sull’equilibrio, che incontra il suo principale ostacolo nel fatto che deve saper vedere al di là di ciò che la nostra opinione pubblica e il nostro sistema dei media mostrano. La politica, a differenza dei media, non può permettersi di non vedere come gli equilibri mondiali stiano profondamente cambiando. Da ultimo ce lo ha ricordato il recente Forum sulla nuova via della seta, svoltosi questa settimana a Pechino, nel quale, circa 150 Paesi si sono ritrovati per delineare i futuri assetti della cooperazione e dell’economia globale. Ma è tutta la scena globale che si sta vivacizzando con nuovi protagonisti con una loro accresciuta voce in capitolo. In un simile contesto la politica di centro sarà di chi la esprime nei fatti non di chi la evoca. Sarà di chi nei fatti non perseguirà la via dell’arroccamento dell’Occidente, e soprattutto dell’Europa, con perenni fronti di guerra verso Est e nel Medio Oriente. Sarà di chi non perseguirà un anacronistico e autolesionista disaccoppiamento delle catene di approvvigionamento ma giocherà le sue carte per la competizione economica euroasiatica e globale, nella logica del reciproco vantaggio e salvaguardando la reciproca autonomia delle parti.

In definitiva, affermare che il confronto con la transizione geopolitica forgia le politiche di centro nel nostro tempo non è un modo per distogliere l’attenzione dalle questioni interne bensì il presupposto per avere credibilità anche sulle priorità della vita civile. Siamo su un crinale vertiginosamente delicato della storia: tutto può ancora volgersi verso un nuovo e più adeguato accordo di coesistenza tra le potenze globali ma il rischio dell’imponderabile aumenta con l’intensificarsi dei conflitti e con il ritardo con cui procede la riforma degli organismi di governo globale. Ciò che può fare la differenza sono proprio quelle forze politiche che comprendono che mai come in questa epoca i diritti, i livelli di vita, la prosperità e la sicurezza dei cittadini del nostro Paese e dell’Ue dipendono più di ogni altra cosa da quale tipo di clima si saprà instaurare tra i vari protagonisti della politica globale. Un clima di scontro permanente piuttosto che un clima collaborativo. Quest’ultimo ritengo sia la via a cui il centro debba guardare, sia con iniziative tendenti a comporre in una sinfonia di amicizia i contrasti e i diversi interessi che emergono a livello internazionale, sia dimostrando di comprendere la pericolosità dell’altra via, quella dello scontro ad oltranza. Un messaggio che non potrà che trovare ascolto fra quell’elettorato desideroso di nuove politiche di centro e disposto a rischiare il proprio consenso a chi queste politiche le fa e non si limita ad enunciarle.