L’attacco concentrico di Renzi e Salvini sottopone il capo del governo a un nuovo stress test d’indubbia rilevanza. Può darsi che l’apparenza inganni e dietro la manovra dei due Matteo non vi sia alcuna convergenza strategica, rimanendo distinte le rispettive traiettorie di medio periodo. Eppure, a giudizio di molti, si va materializzando il sospetto che un cambio di assetto politico costituisca l’obiettivo di questa ennesima operazione destabilizzante.

L’ipotesi di un governo di unità nazionale, complice l’emergenza del coronavirus, è suggestiva e strampalata al tempo stesso: suggestiva perché il Paese ha bisogno di una iniezione di fiducia e serenità, che solo esiste in quanto le forze politiche convergano sul terreno di una comune responsabilità; strampalata, invece, proprio in ragione di un eccesso di buona volontà, destinato a sfrangiarsi immediatamente, con rischi di gravosi contraccolpi.

Non si capisce, in effetti, cosa dovrebbe rappresentare un esecutivo congegnato secondo una logica di precipitosa e dunque fragile aggregazione di forze che fino ad ora sono apparse radicalmente contrapposte. Un governo di solidarietà nazionale non s’inventa dall’oggi al domani, nemmeno in una fase di particolare tensione psicologica per il rischio, non ancora pienamente fugato, di contagio virale.

Intanto l’unico risultato, di per sé felice, che l’iniziativa renzian-salviniana produce è quello della progressiva trasformazione di un movimento a base populista, originariamente anti sistema, in partito consapevole delle proprie decisive funzioni di coprotagonista nella gestione della cosa pubblica. In questo passaggio difficile, un po’ si è attenuata la sensazione di inaffidabilità che il M5S ha guadagnato sul campo per le improvvisazioni dei suoi leader, a partire da Di Maio.

Il problema, a questo punto, è proprio Conte. Non può rimanere sospeso, metà leader super partes e metà leader di partito, a seconda delle circostanze. La sua popolarità va tradotta in uno schema politico più rigoroso e consistente. In sostanza deve fare una scelta, anzitutto nell’interesse del Paese e poi, legittimamente, anche nel suo. L’impressione è che abbia molto da temere, da qui in avanti, se come “avvocato del popolo” si riterrà esentato dall’obbligo di una precisa definizione del suo profilo pubblico, rinunciando a costituirsi punto di riferimento politico anche per un nuovo “centro”, tutto ancora da inventare.