La vicenda del Quirinale obbliga a ripensare l’architettura della politica.

 

Il secondo mandato per il Capo dello Stato uscente, fino all’ultimo estraneo al gioco della reinvestitura, costituisce una scelta di alto profilo che certamente rassicura il Paese, ma non può celare una certa crisi del sistema politico. Emerge la spinta a favore del proporzionale. Il testo è pubblicato su “Democraticicristiani-Per L’Azione” in uscita oggi in versione digitale (pdf).

 

Alessandro Forlani

 

La rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica può certamente ritenersi un evento favorevole e rassicurante per il Paese, che giova sensibilmente ai rapporti internazionali, al prestigio delle istituzioni e alla funzionalità della democrazia repubblicana. Stile, sobrietà e competenza, sensibilità istituzionale, gli vengono universalmente riconosciuti, così come l’indubbia capacità di moral suasion.

 

Ma gli aspetti positivi della soluzione prescelta dai Grandi Elettori e l’indubbio valore del Presidente rieletto non possono celare o ridimensionare la percezione dello spettacolo avvilente, offerto, in questa occasione, da una classe politica caratterizzata da improvvisazione, imperizia e scarso senso di responsabilità.   Anche perché è pur vero che il Presidente Mattarella risultava di gran lunga il favorito, nei sondaggi e negli apprezzamenti espressi nelle più diverse sedi, tra i possibili candidati per il nuovo settennato, ma aveva egli stesso lasciato intendere con estrema chiarezza, in più occasioni, di non essere disponibile a ricandidarsi per un secondo mandato.

 

Quindi il rispetto della persona e della sua sensibilità e volontà, unitamente alla riconoscenza per l’encomiabile

servizio svolto nel suo primo settennato, avrebbero dovuto indurre i vertici delle forze politiche rappresentate in Parlamento a trovare tempestivamente adeguate soluzioni alternative, in grado di raccogliere l’ampio consenso necessario all’elezione presidenziale. Già, perché il contesto politico in cui si collocavano queste elezioni richiedeva una convergenza di portata direi quasi eccezionale, ben al di là della maggioranza assoluta dei componenti il Collegio, la confluenza di tutte le forze che sostengono l’esecutivo attualmente in carica, ai fini di preservare il governo Draghi dai pericolosi effetti di eventuali lacerazioni tra i partiti della sua maggioranza.     Era chiaro, fin dagli inizi, che l’ampia e frastagliata alleanza che sostiene da circa un anno l’esecutivo tuttora in carica non avrebbe dovuto infrangersi in occasione dell’elezione del nuovo Capo dello Stato, pena il rischio di crisi di governo e di elezioni anticipate, con possibile pregiudizio dei rilevanti obiettivi perseguiti.

 

Questa convergenza eccezionale che il momento richiedeva, ben chiara a tutti gli attori – ripeto – fin da principio, doveva indurre i partiti, già prima dell’insediamento dei Grandi Elettori, a costruire tempestivamente una candidatura autorevole e condivisa.     E, possibilmente, una candidatura indipendente, perché era ben chiaro che ciascuno degli schieramenti non avrebbe mai accettato una personalità ritenuta “organica” alla compagine avversa. Non ha aiutato certamente, in questo senso, la candidatura di Berlusconi da parte del centrodestra: non si può negare che sia uomo di parte per eccellenza, è tuttora il Presidente di uno dei partiti della coalizione, è stato a lungo il leader del cartello di centrodestra nelle diverse competizioni elettorali del passato. E, al di là di torti e ragioni, di pregiudizi e dietrologie, della sua stessa volontà, è oggettivamente figura divisiva, come in genere accade a tutti i leader particolarmente esposti come identificazione di una precisa posizione politica.

 

Nel suo caso, poi, rilevano molti altri aspetti della sua biografia, sui quali ognuno naturalmente avrà le proprie opinioni, che tuttavia lo rendono inviso ad una parte rilevante dell’opinione pubblica e delle sue espressioni politiche, mentre un’altra parte, anch’essa rilevante, gli dimostra ancora il proprio consenso ed apprezzamento.   La candidatura di Berlusconi, sostenuta inizialmente, almeno ufficialmente, dall’intero schieramento di centrodestra, ha dunque differito nel tempo la ricerca di un accordo su un candidato condiviso dall’intera maggioranza di governo.

 

Però, a mio giudizio, anche l’eccessivo fuoco di sbarramento partito da Pd e 5 Stelle nei confronti di questa candidatura, con i soliti stereotipi e pregiudizi, ha ostacolato il tempestivo raggiungimento di un’intesa unitaria, perché ha favorito l’arroccamento del centrodestra, dopo il ritiro di Berlusconi, sui tre nomi della “rosa” (Pera, Moratti e Nordio) e poi su Maria Elisabetta Casellati, esposta a un esito disastroso, con circa settanta franchi tiratori. Non intendo certo contestare al centrosinistra la mancata adesione alla candidatura del fondatore e leader di Forza Italia – sarebbe politicamente impensabile – ma forse un maggiore rispetto per la candidatura stessa, magari avanzandone inizialmente un’altra, omogenea alla sinistra stessa, per poi dare inizio alle danze, avrebbe creato maggiore apertura nel centrodestra, anche perché, ragionando sui numeri, si sarebbe potuto facilmente immaginare che il nome del Cavaliere sarebbe stato a un dato momento ritirato, come infatti è avvenuto, prima ancora che iniziassero le votazioni. Ma le astiose polemiche dei giorni precedenti hanno, probabilmente, lasciato il segno e allontanato una soluzione concordata.

 

Un altro nodo fondamentale di questo contrastato iter dell’elezione presidenziale era costituito dalla posizione di Mario Draghi. Per molte ragioni era il candidato ideale per una soluzione bipartisan e rispettosa della preannunciata indisponibilità di Mattarella. Ma era anche il Presidente del Consiglio in carica, una condizione dalla quale non è mai accaduto, nella nostra storia repubblicana, che si sia verificato il “trasloco” al Quirinale. Sono stati eletti alla Presidenza della Repubblica diversi ex capi dell’esecutivo (Segni, Leone, Cossiga, Ciampi), ma mai il premier in carica al momento dell’elezione stessa. La candidatura di Draghi ingenerava inevitabilmente diffuse preoccupazioni sulla sorte del governo, dopo l’eventuale trasferimento dell’ex Presidente Bce da Palazzo Chigi al Quirinale e sulla possibilità di trovare un altro premier in grado di tenere unita l’ampia maggioranza che sostiene il governo stesso.   E con queste preoccupazioni, affiorava incombente lo spettro della conclusione immediata o quasi della legislatura e di elezioni anticipate del nuovo Parlamento, peraltro a ranghi ridotti.

 

L’esplorazione di una strada che consentisse la prosecuzione delle larghe intese – e quindi anche della legislatura – con un altro premier, magari anche lui tecnico e indipendente, non ha trovato, a quanto pare, le necessarie adesioni. Abbiamo sentito molte campane ripetere all’infinito che Draghi è necessario al Paese e deve restare dov’è, non tenendo conto che, con l’elezione alla Presidenza della Repubblica, il Paese stesso lo avrebbe preservato al suo servizio, sia pure in una veste diversa, molto più a lungo.

 

Un’altra possibilità di risparmiare al Presidente Mattarella la revisione dei propositi già manifestati si è ravvisata nella candidatura di Pier Ferdinando Casini che aveva quei requisiti di prestigio istituzionale e di indipendenza che si rendevano necessari. Nel corso delle convulse trattative che hanno accompagnato gli otto scrutini è sembrato più volte molto vicino al traguardo e, forse, insistendo, avrebbe potuto trovare un terreno favorevole. Con la sua rinuncia ha dato prova di alta sensibilità politica e istituzionale. Da questa nuova elezione presidenziale usciamo, questa volta, con il nostro sofferto bipolarismo assai malridotto, il centrodestra diviso e in attesa ormai di una rifondazione, più ancora che di chiarimenti o rese dei conti. E l’asse PD-5 Stelle, già in rodaggio da tempo, sembra anch’esso scricchiolare, a causa delle tensioni e conflittualità che investono il movimento grillino, rese ancora più visibili all’esito dell’elezione presidenziale.

 

È tempo, credo, di una revisione sistemica degli assetti politici e della presa d’atto – fatta salva la necessaria intesa su cui è fondato il governo Draghi – del logoramento dei vecchi equilibri. Molto dipenderà anche dalla legge elettorale che verrà adottata: proprio la crisi degli schieramenti contrapposti potrebbe rafforzare la tentazione del ritorno al proporzionale.