Sarebbe ingiusto mascherare di silenzio questo ricordo. L’ultimo saluto a Sandro Cavola ha visto riuniti giovedì scorso, 5 novembre, nella Chiesa di S. Crisogono a Trastevere, vari amici che assieme a lui hanno condiviso un lungo tratto di strada nel territorio della politica democristiana romana. Ultimamente, la sua adesione era andata alla giovane compagine di Demos, guidata da Mario Giro e Paolo Ciani, grazie soprattutto al sodalizio antico con il padre di quest’ultimo, l’ex deputato Fabio Ciani. A Demos aveva portato la sua instancabile vocazione a fare squadra, senza voler essere, per così dire, colui che si atteggia a caposquadra. Manifestava, cioè, la naturale propensione al riserbo, dando prova di quella sapiente combinazione di umiltà e consapevolezza, che spesso manca alle persone coinvolte nel gioco stretto della politica.
Come tutti i romani non romani, essendo lui originario della provincia, aveva contratto un debito morale con la città. Si sentiva, probabilmente, un detentore di quella cittadinanza che faceva di Roma l’antica forma di Stato-Città che anteponeva l’acquisizione di uno status giuridico a vocazione universale all’angusta appartenenza municipale, in fondo sconosciuta alla discendenza di Romolo. Il debito morale consisteva nel dare a Roma quel che era di Roma, tanto da convincersi che l’impegno politico sul territorio esauriva da un lato e anticipava dall’altro l’impegno politico a tutto campo. La Dc per Cavola è stata la Dc romana, riconoscendo in essa, parodia di una sintesi a priori, il connotato generale della politica democristiana. Il Comitato romano, da questo punto di vista, era lo Studio Ovale di una Casa Bianca a dimensione umana. Lo era nel vissuto dell’incontro quotidiano, stante l’orgoglio di un apporto scanzonato posto pure a presidio della distinzione da Piazza del Gesù, avendo a riguardo l’istintiva convinzione di poter sussumere il valore e la sostanza politica di essa (non già, ovviamente, la sua funzione di rappresentanza nazionale).
Come pochi era capace di dialogo. Uomo di corrente, ovvero dell’egemone correntone petruccian-andreottiano, si profilava amante di amicizie larghe, senza barriere di appartenenze, con la ruminazione lenta di quel foraggio di intrighi, pettegolezzi e strafottenze, che nutriva nel quotidiano l’antropologia del quadro intermedio del partito. Non se ne lasciava tuttavia travolgere, poiché sapeva distinguere da cristiano trasteverino – e i trasteverini, da sempre, sono poco attenti ai freddi obblighi di chiesa e molto inclini al calore delle devozioni – il grano dal loglio, vale a dire l’essenziale dal superfluo. In premio ricevette, per questa sua fedeltà al servizio di partito, il via libera all’elezione in Consiglio provinciale a cavallo degli anni ‘80-‘90. Ci arrivò quando il tracollo della Dc, impensabile fino a Mani Pulite, iniziava a produrre labili e tuttavia concreti segnali di pericolo. Poi non ebbe esitazioni a schierarsi con i Popolari, quindi ad entrare nella Margherita e infine nel Pd. Il suo percorso dimostra, allora, come sia fallace l’identificazione della linea del “centro che muove verso sinistra” (De Gasperi) con l’atteggiamento peculiare ed esclusivo della sinistra dc: invece tale opzione a sinistra, fatta propria da Cavola, è valsa anche per cospicua parte dei gruppi moderati del partito.
Questa è la storia pubblica in cui lumeggia un desiderio di coerenza personale. Ciò non toglie che nel sentimento più profondo di Cavola ci fosse comunque la premura di un retaggio identitario che l’adesione al Pd – soggetto politico eterogeneo e incomposto – ha finito per corrompere nel tempo. Qui sta il cuore dell’altra storia, quella più intima e personale, di cui intuiamo la valenza. In Demos, al di là dei rapporti amicali, egli doveva evidentemente ritrovare l’humus di una politica confacente a un pensiero e a una tradizione, di per sé amica più degli amici stessi. Sandro credeva che ci fosse verità solo nel fattore umano. “Non mi vuoi più bene”: così amava esordire, infatti, quando una telefonata sopraggiungeva dopo troppo ritardo, perlopiù casuale e incolpevole. Era il suo modo di masticare la vita e di essere compartecipe degli altri. Quanti hanno avuto perciò l’onore di salutarlo, a San Crisogono, in un modo o nell’altro possono aver testimoniato la cristiana commozione di un abbraccio che per ognuno – ognuno di noi lì presente anche a nome di tanti altri – sapeva di risposta ultima ma non definitiva. A Sandro, insomma, gli abbiamo voluto bene e ancora gliene vorremo.