Fonte: Politica Insieme a firma di Domenico Galbiati
In un recente incontro con amici di Brescia, i meno giovani ricordavano un antico appuntamento che, assieme a Mino Martinazzoli ( allora non ancora parlamentare), ebbero con Aldo Moro.
L’incontro era stato chiesto da Mino. L’intento – secondo una attitudine al “pensiero” che precede e giustifica l’azione politica – era quello di approfondire e mettere in chiaro le ragioni ed i criteri fondanti di quell’impegno politico che li avrebbe visti confluire nella sinistra di Base della Democrazia Cristiana. Moro diede loro una ricetta semplice: laicità, responsabilità individuale, cristianesimo.
Non uno schema ideologico, dunque, ma un insieme di punti cardinali.
Non un elenco, ma, appunto, un “insieme”, cioè un impianto concettuale in cui le parti si tengono, rimandano l’una all’altra e si giustificano a vicenda.
Laicità come distinzione dei piani: la religione è universale, la politica particolare; assunto che Martinazzoli ripeterà spesso anche negli ultimi tempi della sua esperienza politica.
La laicità come riconoscimento del valore originale e proprio, non derivato o delegato da altra dimensione, della “città terrena” come tale.
Responsabilità individuale come evocazione della persona quale soggetto di relazioni che deve assumere in proprio la fatica cognitiva, psicologica e morale del “giudicare”, senza sfangarla con la facile scappatoia del rifugiarsi negli automatismi dell’ideologia.
Dunque, laicità e responsabilità individuale come condizioni previe per cui principi e valori propri del cristianesimo possano essere efficaci sul piano della storia.
Se vogliamo discutere a fondo la possibilità che rinasca o meno una presenza organizzata di ispirazione cristiana nel nostro Paese, dobbiamo prendere sul serio le ragioni di chi ritiene che cio’ non sia possibile.
Per descrivere l’excursus storico del cattolicesimo politico in Italia, potremmo ricorrere alla metafora del cuore: diastole e sistole, i due movimenti con cui incessantemente il muscolo cardiaco, istante per istante, mantiene e ravviva la vita dell’organismo.
C’è voluta la lunga stagione del “non expedit” e dell’Opera dei Congressi, una fase di accumulazione di esperienze sociali e di maturazione di una nuova consapevolezza di sé prima che i cattolici democratici approdassero – dalla diastole alla sistole – alla breve stagione politica del Partito Popolare.
Del resto, è stato ricordato anche come sia stato, a sua volta, ampio perfino l’ intervallo temporale che corre tra il discorso di Sturzo a Caltagirone (1905) e la fondazione del Partito Popolare.
A seguire, il ventennio fascista, l’esclusione dei cattolici da ogni responsabilità pubblica, ancora una volta una lunga fase di studio, di riflessione, di progressiva presa di coscienza, poi, ancor prima del 25 luglio, i primi timidi passi di ripresa organizzativa, per giungere alla stagione della Democrazia Cristiana.
Questa volta, una sistole così prolungata -dovuta anche ad un contesto internazionale che imponeva una piena ed ininterrotta assunzione della responsabilità del potere – tale da alterare profondamente la fisiologica alternanza del ritmo al punto da provocare un sostanziale arresto cardiaco, il conseguente collasso e l’exitus di una grande esperienza politica.
Da allora, ancora una volta, sono trascorsi più di vent’ anni; un quarto di secolo e non sorprende il fatto che oggi si avvertano fermenti nuovi, rinasca un’attesa, un nuova coscienza da parte di molti cattolici e forse anche un’attenzione e perfino una domanda da parte almeno di alcuni ambienti della società civile.
Perché’ questa aggiornata fase di iniziativa culturale e politica nel segno di una rinnovata ispirazione cristiana sia possibile e’ necessario abbandonare ogni nostalgia e non accampare ambizioni esorbitanti.
Una minoranza attiva potrebbe immettere semi di realismo in un discorso pubblico slabbrato; forse addirittura qualche “atomo di verità’”; quelli cui Aldo Moro non avrebbe rinunciato neppure a prezzo di milioni di voti?
Lo potremmo sapere davvero solo alla prova dei fatti.
Ma questo ci esime dalla responsabilità’ di provarci e verificarlo sul campo?
Oppure ci basta presumere o stabilire a priori che comunque non si possa?
I presupposti morotei ricordati dagli amici di Brescia valgono ancora?
Sì, purché – come dev’ essere per loro natura – non si commetta l’errore di costringerli in una camicia di forza ideologica, bensì li si assuma come principi di metodo e contenuti valoriali che stanno dentro il processo storico di una identità che sa coniugare la fermezza delle proprie radici con la capacità di ascoltare quelli che una volta si chiamavano i “segni dei tempi” ed oggi, più prosaicamente, possiamo considerare le nuove aspirazioni, le istanze, le domande forse ancora implicite, sotto traccia, che pure già si colgono chiaramente come ”cifra” del nostro tempo post-moderno.
Ciò che non è riproponibile, al di là della loro immediata contingenza temporale, sono, al contrario, appunto le ideologie.
Infatti, qui sta la differenza.
Se vogliamo tentare un paragone con quel che si discute oggi nel campo della filosofia della scienza, le ideologie appaiono come sistemi assiomatici chiusi che nulla, per loro definizione, possono apprendere di nuovo, cosicché sono comunque destinate ad accartocciarsi su se stesse.
Al contrario, un pensiero che si articola, come nel caso della cultura politica del cattolicesimo democratico, su riferimenti non ossificati, bensì capaci di un richiamo costante e vivo alla storia nel suo libero divenire, assomiglia a quei sistemi logici aperti, capaci di apportare conoscenze nuove, di implementare ed arricchire il loro impianto cognitivo di base e, pertanto, di continuare a vivere.