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mercoledì, 20 Agosto, 2025
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Land for Peace. Quando la terra diventa moneta di scambio per la pace

Il vertice di Washinton ci ricorda che ogni compromesso territoriale ha senso solo se inserito in una prospettiva realistica di pace duratura, e non come imposizione unilaterale o risultato della forza.

«Land for Peace» – terra in cambio di pace. Questo slogan, nato in Medio Oriente dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, è tornato a risuonare, in forme nuove e inquietanti, nel contesto della guerra in Ucraina. A distanza di decenni e migliaia di chilometri, la logica sottostante – cedere territori occupati o contesi in cambio della cessazione di un conflitto – si ripropone, con tutte le sue implicazioni etiche, strategiche e geopolitiche. Dopo la guerra del 1967, Israele occupò diversi territori: la Cisgiordania, Gerusalemme Est, le alture del Golan, la Striscia di Gaza e il Sinai. La Risoluzione 242 dell’ONU lanciò ufficialmente la formula “Land for Peace”. Israele avrebbe dovuto ritirarsi dai territori occupati in cambio del riconoscimento da parte degli Stati arabi e di una pace duratura. Il paradigma sembrava semplice, ma si scontrò con realtà complesse, identità nazionali, rifugiati, sicurezza, insediamenti, confini. E infatti, decenni dopo, il conflitto resta in gran parte irrisolto.Tuttavia, alcuni esempi concreti esistono. Nel 1979 Israele restituì il Sinai all’Egitto, in cambio di un trattato di pace. Ma in Palestina, l’idea di “terra in cambio di pace” si è infranta contro l’espansione degli insediamenti israeliani, la debolezza politica interna dei due fronti, e il continuo deteriorarsi delle condizioni umanitarie. 

Anche la guerra in Ucraina ha visto emergere – in forma più implicita, ma altrettanto centrale – una logica simile. La Russia, fin dall’inizio dell’invasione nel 2022, ha giustificato la propria aggressione con motivazioni storiche, culturali e strategiche, ma l’elemento territoriale è rimasto al centro, Crimea, Donbass, Zaporizhzhia, Kherson. Oggi, mentre si moltiplicano gli appelli internazionali per un cessate il fuoco e si discutono ipotetici tavoli di pace, una delle condizioni non dette – ma ben comprese – da parte di Mosca è proprio questa. Il riconoscimento del controllo russo su parte dei territori ucraini. In altre parole, la guerra potrebbe finire se l’Ucraina accettasse di cedere territori. Terra in cambio di pace, ancora una volta. Nonostante le differenze sostanziali – Israele fu un Paese aggredito nel 1967, mentre la Russia è l’aggressore in Ucraina – in entrambi i casi la pace viene subordinata a una ridefinizione dei confini territoriali. Ma con quali conseguenze? Nel caso palestinese, la cessione o mancata restituzione di territori, ha generato instabilità cronica. 

Nel caso ucraino, l’eventuale accettazione di una pace territoriale rischia di creare un pericoloso precedente internazionale, dove la forza armata viene premiata con vantaggi geopolitici. C’è poi una questione morale, può uno Stato democratico come l’Ucraina, invaso e bombardato, essere costretto a cedere parte della sua sovranità per placare l’aggressore? E chi garantirebbe che una simile “pace” sia duratura e non solo una tregua temporanea? Lo slogan «Land for Peace» può sembrare una soluzione pragmatica, ma è anche profondamente ambiguo. Rappresenta il tentativo di risolvere conflitti asimmetrici con compromessi territoriali, ma spesso ignora le radici storiche, identitarie ed etiche degli scontri. Nel 1967, come oggi, la terra è molto più di un bene geografico. È simbolo, identità, sovranità. Scambiarla per la pace può sembrare un atto di realismo politico, ma spesso rischia di trasformarsi in un’illusione. 

Il vertice di Washington ha rappresentato un passaggio cruciale nella diplomazia internazionale attorno al conflitto in Ucraina. Accanto al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, erano presenti alcuni tra i principali leader europei, segnale di un’Europa che, pur tra le sue differenze, cerca di parlare con una voce unitaria di fronte alla guerra. Il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il primo ministro britannico Keir Starmer, la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e il presidente finlandese Alexander Stubb. A questi si sono uniti Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e Mark Rutte, segretario generale della NATO. Insieme, hanno ribadito l’importanza di sostenere l’Ucraina non solo sul piano militare, ma anche politico e diplomatico, discutendo garanzie di sicurezza condivise, un possibile cessate il fuoco monitorato, e – per la prima volta in modo ufficiale – la possibilità di colloqui diretti tra Zelensky e Vladimir Putin. In questo contesto, l’idea – esplicita o implicita – di “terra in cambio di pace” torna a farsi strada. Ma proprio questo vertice ci ricorda che ogni compromesso territoriale ha senso solo se inserito in una prospettiva realistica di pace duratura, e non come imposizione unilaterale o risultato della forza. 

La pace non può essere costruita sacrificando il diritto internazionale o la dignità dei popoli. Una pace vera non nasce dal silenzio delle armi imposto, ma dalla volontà condivisa di superare le ingiustizie, riconoscere le ferite, e costruire un domani in cui la sovranità, l’identità e la vita umana non siano moneta di scambio, ma fondamento stesso dell’ordine internazionale.