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lunedì, 12 Maggio, 2025
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L’articolo 18 tra memoria e propaganda: la lezione dimenticata di Donat-Cattin

A 55 anni dallo Statuto dei lavoratori, il confronto con i referendum di oggi impone una riflessione sulla natura del riformismo e sul ruolo dei sindacati nella democrazia.

Quando si parla di lavoro, di politiche del lavoro e dell’articolo 18 nel nostro Paese, il pensiero corre immediatamente all’approvazione dell’ormai storico Statuto dei lavoratori. Una legge approvata ben 55 anni fa, il 20 maggio del 1970.k

«Abbiamo portato la Costituzione nelle fabbriche»: questo fu il passaggio più significativo dell’intervento del Ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin – “o dei lavoratori”, come si definì al momento del suo giuramento al Quirinale –, leader della sinistra sociale della DC dell’epoca. Una legge, comunque sia, che ha segnato concretamente il cammino della cultura riformista del nostro Paese.

Un riformismo che richiamava, anche e soprattutto, il contributo decisivo e determinante di quel cattolicesimo sociale che era, e resta, un pilastro essenziale della qualità della nostra democrazia e della sua capacità di difendere le ragioni concrete dei lavoratori e delle condizioni di vita dei ceti popolari.

Ora, è di tutta evidenza che non possiamo tracciare confronti impropri tra ieri e oggi, né tantomeno pensare che ogni referendum sia uguale a quello precedente. Quelli che sono in calendario il prossimo 8-9 giugno rispondono a una precisa finalità politica, teorizzata e ribadita – del resto – quotidianamente dagli stessi promotori. E, nello specifico, dal capo del sindacato rosso della CGIL, Landini, che non perde occasione per dire solennemente che l’unico obiettivo di questa consultazione referendaria è quello di dare un colpo decisivo all’attuale maggioranza di governo.

Obiettivo radicalmente condiviso e avallato dai capi degli altri tre partiti della sinistra. Obiettivo, sia chiaro, del tutto legittimo, ma radicalmente estraneo – esterno – rispetto ai quesiti specifici dei vari referendum, in particolare di quelli riconducibili alla normativa sul lavoro.

Per queste ragioni, semplici ma anche oggettive, è del tutto fuori luogo paragonare la grande stagione democratica, riformista e costituzionale che ha prodotto il varo dello Statuto dei lavoratori con la propaganda politica contemporanea dei vari Landini, Schlein e Fratoianni/Bonelli. Cinquant’anni fa si trattava di difendere finalmente e a tutti gli effetti i diritti dei lavoratori, di far entrare i valori costituzionali nei luoghi di lavoro – come, appunto, sosteneva il Ministro del Lavoro Donat-Cattin – e, in ultimo ma non per ordine di importanza, di unire e coinvolgere il sindacato in una vera e propria azione riformatrice.

Altra cosa, tutt’altra cosa invece, è teorizzare e praticare una mera operazione politica che spacca il sindacato – come sta concretamente capitando –, che non individua una chiara normativa che regolamenti il mondo del lavoro e che, soprattutto, non migliora le condizioni dei lavoratori ma rischia, paradossalmente, di acuire ed aggravare il rapporto tra l’impresa e il lavoro.

Ecco perché, quando si costruisce una piattaforma politica veramente democratica, autenticamente riformista e chiaramente di governo, occorre essere chiari e trasparenti sin dall’inizio. Come lo fu, infatti, Donat-Cattin con lo Statuto dei lavoratori e la coalizione che, ben 55 anni fa, diedero forma e sostanza alla più grande operazione riformista del nostro Paese.