L’autogestione introdotta nell’ex Jugoslavia aveva origine nel programma della Sinistra cristiana italiana

Lo sloveno Kocbek nel 1944 venne messo al corrente della proposta di Rodano e Ossicini. Il modello autogestionario jugoslavo diventerà l’alternativa al collettivismo sovietico. Se ne vedranno i riflessi anche sulla Laborem exercens.

La ‘Sinistra Cristiana’, da intendersi più precisamente come sinistra cattolica, è stato un movimento politico presente in tutta Europa nel triennio 1944-46, come fece notare in un suo intervento Franco Rodano al Congresso Straordinario del Partito della Sinistra Cristiana del dicembre 1945, ma in Italia ha sviluppato una propria filosofia politica autonoma, che le ha dato una caratterizzazione specifica.

Nell’agosto 1944, dopo la liberazione di Roma, i movimenti della sinistra cristiana italiana e slovena hanno cominciato a dialogare in modo intenso. Si è quindi arrivati ad una vera e propria alleanza tra l’allora Movimento dei Cattolici Comunisti ed il Movimento dei Lavoratori Cristiani sloveno, su cui la filosofia di Rodano esercitava un’indiscutibile influenza. Il capo della sinistra cristiana slovena Kocbek divenne Ministro del governo Tito nel 1945, ma nel 1946 venne rimosso dall’incarico ed il Movimento dei Lavoratori Cristiani sloveno venne sciolto. Nel 1947 in Jugoslavia i resti della Sinistra Cristiana istriana italiana e slovena si riorganizzarono nel Partito Cristiano Sociale della Zona B del Territorio Libero di Trieste, ammesso alle elezioni amministrative, ma poi scomparso nel giro di qualche anno.

Nel discorso già menzionato, Franco Rodano, con riferimento all’alleato sloveno, sottolinea come la sinistra cristiana in Europa fosse costituita semplicemente da comunisti che rivendicavano la propria fede e i propri valori cristiani. La Sinistra Cristiana italiana, anche in seguito ad interminabili dibattiti di cui sono espressione numerosi articoli pubblicati su Voce Operaia, ha invece elaborato una filosofia politica radicata più nella neoscolastica scotista (Ossicini) e tomista (Rodano e Balbo) che nel marxismo. La partecipazione al governo Tito con Djilas e Kardelj, benché conflittuale, ha permesso al capo della sinistra cristiana slovena di far circolare nel contesto del governo Tito le idee che aveva appreso dal confronto con i cattolici comunisti italiani, in particolare in tema di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.

In Italia nel 1941 nella fase del Movimento Cooperativista Sinarchico, i filosofi della inistra cristiana (in particolare Don Paolo Pecoraro e Rodano) teorizzarono la generalizzazione del sistema cooperativo nel Paese, tanto che nel 1944 nella fase del Movimento dei Cattolici Comunisti essi proposero che il CdA dell’IRI fosse eletto dai lavoratori e dai consumatori. Insomma, tirando le somme, Balbo, Ossicini, Rodano e gli altri ritennero che il Capitalismo di Stato sovietico ed il Corporativismo di Stato fascista fossero in contraddizione con i principi cristiani. Proposero, quindi, per tutta la durata dell’esistenza della Sinistra cristiana i modelli comunitaristi dell’autogestione nelle aziende pubbliche, della cogestione nelle aziende private e delle cooperative di lavoratori.

Kocbek, durante gli incontri romani con Rodano e gli altri dell’agosto 1944, venne messo al corrente della proposta politica della sinistra cristiana italiana e la fece propria. Nel 1945, il Primo Ministro della Slovenia nel governo federale jugoslavo Kocbek, ottenne quindi l’introduzione di Consigli Operai consultivi su modello dei Consigli di Gestione italiani nelle aziende jugoslave. Dopo la rottura con Stalin, i principali avversari della sinistra cristiana in Slovenia, cioè Djilas e Kardelj, responsabili dello scioglimento del Movimento dei Lavoratori Cristiani sloveno nel 1946, su pressione dei Consigli Operai consultivi e dei sindaca hanno ripreso le vecchie proposte della sinistra cristiana slovena e hanno proposto a Tito di introdurre l’autogestione nelle aziende jugoslave per superare il modello stalinista. Tito, in verità, all’inizio era contrario, ma alla fine nel 1950 incaricò Kardelj di preparare una nuova Legge sui Consigli Operai che introduceva l’autogestione nelle aziende jugoslave senza smontare il sistema della pianificazione centralizzata.

Kardelj, che pure era stato avversario di Kocbek e della sinistra cristiana slovena, abbandonò gradualmente il linguaggio marxista e riprese il linguaggio del comunitarismo cattolico per dare un quadro normativo all’autogestione jugoslava. Per cui le aziende autogestite divennero “Comunità del lavoro associato” e tutto il linguaggio della Costituzione Jugoslava del 1974 venne improntato al più stretto comunitarismo e personalismo di matrice cattolica, che purtroppo non ha mai trovato un riscontro nella realtà, perdurando il monopolio del partito unico che soffocava l’economia dell’autogestione.

Il trapasso dal linguaggio marxista al linguaggio comunitarista in Jugoslavia inizia con la riforma costituzionale del 1963 e con la riforma economica del 1965 e sarà un segnale ben preciso per la Santa Sede, che faciliterà l’incontro tra papa Paolo VI ed il Maresciallo Tito.  In generale, va detto che la legge sull’impresa del 1965 e la normativa collegata sono considerate molto liberali perché lasciavano alle imprese autogestite di proprietà sociale la massima autonomia finanziaria. Negli anni successivi, però, Kardelj, sloveno e di cultura cattolica come l’avversario Kocbek, comprese che quella riforma portava le “comunità del lavoro associato” alla ricerca della massimizzazione del profitto aziendale in vista di una ripartizione degli utili tra i membri della comunità di lavoro rispetto al “Bonum commune” di tutto il popolo. Decise quindi una riforma che andasse nel senso di una “pianificazione autogestita”, cioè di favorire la libera associazione delle aziende autogestite in consorzi di imprese, in modo da consentire una regolazione dal basso del mercato. La riforma venne varata nel 1976, due anni dopo che nel 1974 era stata varata la nuova Costituzione, che poneva il comunitarismo ed il personalismo come elementi portanti del nuovo dettato costituzionale jugoslavo.

Va qui precisata la differenza terminologica usata: il comunitarismo delineato dal dettato costituzionale jugoslavo chiama “comunità del lavoro associato” l’insieme dei lavoratori di una azienda, mentre il diritto sovietico, quando ha introdotto la cogestione delle aziende di Stato nel 1983, usava un linguaggio schiettamente marxista, quindi si parlava di “collettivo di lavoro” e non di “comunità del lavoro associato”. Kardelj utilizza un linguaggio di impronta cattolica, che non viene ammesso dal legislatore sovietico. Il 30 giugno 1987 il Soviet Supremo dell’URSS varò la nuova Legge sulle imprese di Stato, che introduceva in Unione Sovietica l’autogestione su modello jugoslavo, ma anche in questo caso il linguaggio usato era marxista e non comunitarista come quello in uso in Jugoslavia. Gorbaciov puntava ad un umanesimo laico, mentre il pensiero di Kardelj assume un vocabolario influenzato dalla Dottrina Sociale della Chiesa e cerca di adattarlo al nuovo sistema sociale fondato sul comunitarismo più radicale dell’autogestione.

Un attento esame del n. 14 dell’enciclica Laborem exercens dimostra l’influenza del pensiero contenuto nel libro Proprietà sociale e autogestione di Edvard Kardelj su San Giovanni Paolo II:

‘Se dunque la posizione del rigido capitalismo deve essere continuamente sottoposta a revisione in vista di una riforma sotto l’aspetto dei diritti dell’uomo, intesi nel modo più vasto e connessi con il suo lavoro, allora dallo stesso punto di vista si deve affermare che queste molteplici e tanto desiderate riforme non possono essere realizzate mediante l’eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione. Occorre, infatti, osservare che la semplice sottrazione di quei mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo soddisfacente. Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale, cioè dei proprietari privati, per diventare proprietà della società organizzata, venendo sottoposti all’amministrazione ed al controllo diretto di un altro gruppo di persone, di quelle cioè che, pur non avendone la proprietà, ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell’intera economia nazionale oppure dell’economia locale.

Questo gruppo dirigente e responsabile può assolvere i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro – ma può anche adempierli male, rivendicando al tempo stesso per sé il monopolio dell’amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione e non arrestandosi neppure davanti all’offesa dei fondamentali diritti dell’uomo. Così, quindi, il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla socializzazione di questa proprietà. Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il com-proprietario del grande banco di lavoro, al quale s’impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita (1)’.

San Giovanni Paolo II riprende la distinzione fatta da Kardelj in Proprietà sociale e autogestione tra ‘proprietà statale’ e ‘proprietà sociale’. Per Kardelj e per San Giovanni Paolo II ‘il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato non è certo equivalente alla socializzazione di questa proprietà’, cioé non dà necessariamente luogo alla proprietà sociale dei mezzi di produzione. Se infatti ‘il gruppo dirigente dello Stato assolve i suoi compiti male, rivendicando al tempo stesso per sé il monopolio dell’amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione, il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato non è certo equivalente alla socializzazione della proprietà’ dei mezzi di produzione, ma configura quella che Kardelj chiama ‘proprietà statale’. San Giovanni Paolo II passa quindi a proporre negli stessi termini di Kardelj il sistema dell’autogestione sociale dei mezzi di produzione come l’unico sistema in grado di garantire la reale proprietà sociale dei mezzi di produzione in cui per mezzo delle ‘comunità del lavoro associato’ i lavoratori diventano allo stesso tempo ‘comproprietari’ di tutti i mezzi della proprietà sociale e gestori di tali mezzi in nome e per conto di tutto il popolo lavoratore:

‘Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il com-proprietario (2) del grande banco di lavoro, al quale s’impegna insieme con tutti (3)’.

San Giovanni Paolo II dimostrava di apprezzare anche il sistema delle ‘comunità d’interessi autogestite’ introdotte in Jugoslavia con la Costituzione del 1974 quando dice che ‘una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri’. I ‘corpi intermedi’ collegati alle ‘comunità del lavoro associato’ ‘con finalità economiche, sociali, culturali’ sono infatti precisamente le ‘comunità d’interessi autogestite’.

L’influenza del pensiero autogestionario di Kardelj su San Giovanni Paolo II in questo documento del 1981 è legato in gran parte al fatto che proprio nel 1981 era avvenuto un colpo di Stato in Polonia proprio per bloccare la nuova legge sull’autogestione appena varata dal governo polacco per venire incontro alle rivendicazioni del sindacato cattolico Solidarnosc. L’intervento risoluto di San Giovanni Paolo II nel 1984 obbligò il governo polacco a rendere esecutiva la nuova legge sull’autogestione sospesa in seguito al colpo di Stato del 1981.

 

Note

 

(1) Enciclica Laborem exercens, III, 14.

 

(2) Giovanni Paolo II nel suo linguaggio rendeva la tesi kardeljana di distinzione di “proprietà sociale” e “proprietà statale” utilizzando un linguaggio ripreso dal Manifesto del Partito Cooperativista Sinarchico (l’azienda di proprietà sociale vede nei suoi lavoratori il “com-proprietario”, ecc.). Quel “com” va inteso alla latina nel senso di “insieme”, cioè di una compartecipazione al possesso reale dei mezzi di produzione. Sostanzialmente l’impresa autogestita diviene “proprietà di gruppo” del collettivo di lavoro, che produce ricchezza a beneficio del bene comune di tutto il popolo. Questo modo di vedere influenzerà la Legge jugoslava sull’autogestione del 1989, sperimentata solo per un paio d’anni. Sul piano pratico cambiava poco. Probabilmente Giovanni Paolo II, come i Cooperativisti Sinarchici, intendeva dare all’autogestione un’interpretazione più comunitarista e meno marxista. Non si può tuttavia dire con certezza se San Giovanni Paolo II abbia letto il Manifesto del Partito Cooperativista Sinarchico (improbabile) o se sia arrivato a queste conclusione seguendo la stessa linea di ragionamento.

 

(3) Enciclica Laborem exercens, III, 14.

 

Massimo Pasquale Cogliandro

Amministratore del gruppo facebook Movimento dei Cattolici Comunisti – Sinistra Cristiana