Con la crisi generata dalla finanza globalizzata, lo spirito di solidarietà ha subito un contraccolpo durissimo. È venuto meno, nella percezione comune, un pilastro fondamentale della vita civile. Appare così che ne prenda il posto un simulacro senza mordente, capace solo di accompagnare la grezza ebollizione degli istinti. Fatalmente, dietro la volgarità si staglia il declino della politica. Tutto si lega. L’ansia di sottrarsi alla pena di un regresso generalizzato – un mix di stagnazione economica e crescente diseguaglianza  – ha iniettato nelle arterie della società il veleno del populismo, paralizzando la funzione di gruppi o ceti dirigenti. Domina pertanto l’evocazione della sicurezza, persino nelle forme più irrazionali. È il simulacro, appunto, che adombra e distorce il bisogno di solidarietà. Ora, lontani dall’Europa saremmo forse più sicuri? E lo saremmo agitando la bandiera del nazionalismo? Piuttosto, l’Italia ha bisogno di rintracciare nel suo carattere di nazione aperta e dinamica, capace di unire intraprendenza individuale e coesione sociale, una versione alternativa alla politica del riscatto immaginifico e velleitario, sostanzialmente alieno da ogni basilare principio di responsabilità.

Se invece guardassimo più al dentro della crisi, con uno sforzo vero di analisi e comprensione, potremmo scorgere e apprezzare il ritratto migliore della nazione. Contro il ripiegamento pessimistico che debilita il Paese, la fiducia nel binomio di solidarietà e creatività trova linfa preziosa nelle comunità locali. Se nella nostra storia i Comuni hanno aperto la via alla modernità, oggi restano il nucleo pulsante del corpus istituzionale repubblicano. Sono il vestito, per dirla con il sindaco La Pira, di una autonomia in senso pieno e autentico, che risiede e opera nel quadro di aggregazioni naturali antecedenti alla costituzione dello Stato. Essi, in sostanza, esprimono e rappresentano qualcosa – l’autonomia, appunto – che qualifica l’identità comunitaria e ne struttura l’articolazione democratica.

Come la famiglia, anche la comunità incarna la proiezione sociale della persona umana. Qui è la concreta manifestazione del solidarismo possibile. Da ciò deriva il senso di “appartenenza plurale” che libera energie e promuove sintesi, facendo del civismo politico il substrato dell’unità della nazione. Quando ai primi del Novecento (1901) nacque l’Associazione dei Comuni, lo spirito di solidarietà ne fu il principio informatore: enti piccoli e grandi, sia del nord che del sud, decidevano di mettere insieme le loro esperienze per organizzare, in questo modo, una rappresentanza politico-istituzionale, non subalterna al potere accentratore dello Stato.

Fu merito di radicali e socialisti avviare il processo di organizzazione dell’Anci, fu responsabilità di Sturzo e dei cattolici municipalisti entrarvi a testa alta e con sincera convinzione, appena un anno dopo. Dunque, le forze popolari muovevano dai Comuni per cambiare l’Italia. Dobbiamo far tesoro di una lezione – oltre al metodo anche la sostanza politica – sottesa alla prima spinta autonomistica a vocazione nazionale. L’aspetto esemplare di quella operazione rifulge ancora oggi: sull’istinto egoistico doveva prevalere lo spirito di condivisione, prefigurando il superamento dello Stato monoclasse. Il decentramento, perciò,  ordinava il pluralismo sull’asse di una nuova democrazia della partecipazione, al riparo da formule ideologiche di contrapposizione tra centro e periferia, tra classi popolari ed élite, tra libertà e potere. Urge recuperare il senso di questa memoria, per capire bene cosa fare nel presente. Alle attuali spinte disgregatrici, specialmente quando prendono le forme di un regionalismo astratto e radicale, al fondo incomprensivo del rischio di riprodurre in scala i vizi e gli errori del centralismo statuale, occorre giustapporre l’ipotesi di un amalgama virtuoso, generato dalla base della società, con l’unico accentramento amico dell’autenticità autonomistica: quello prodotto dal principio di solidarietà, a sua volta congiunto al principio di libertà. L’Italia, in definitiva, può uscire dal labirinto di frustrazione e declino anche riscoprendo la forza propulsiva del suo “cuore” comunitario locale.

Si tratta, allora, di affrontare il dibattito sulla ricostruzione del Paese con un comportamento più ricco di sensibilità e consapevolezza, volto perciò a contrastare il ricorso alla vuota retorica del cambiamento. L’occasione del congresso fa dell’Anci una sede privilegiata della discussione sul futuro dell’Italia. Non serve un congresso di segno burocratico, nella logica cioè del ricambio pure e semplice delle rappresentanze elettive negli organi di direzione. Il confronto deve farsi vivo, suscitando in noi la presa d’atto di nuovi compiti e nuove sollecitazioni. Se pure nell’Anci cede lo spirito di solidarietà, sarebbe vano credere che non possa cedere in seno all’architettura complessiva delle istituzioni. 

Solidarietà vuol dire tante cose, altre ne lascia intuire e definire, dal monento che obbliga a discutere sul programma di rigenerazione dal basso di un’Italia sfiduciata e stanca. Non possiamo assistere inermi allo spopolamento delle aree interne e all’abbandono dei piccoli comuni di montagna. Alcuni studiosi, lanciando il tema del “riabitare l’Italia”, ci propongono d’intervenire sulla base di un nuovo welfare statale, così da evitare lo spreco di risorse a causa del particolarismo cristallizzato in una legislazione tortuosa, ben lontana da visioni equilibrate e lungimiranti. Sulla finanza e la fiscalità locale manca da troppo tempo l’affermazione di politiche improntate alla logica di perequazione, per avvicinare i più deboli ai più forti. I centri minori, con risorse scarse e basi imponibili ridotte, non possono essere lasciati ai margini di tutto. Anche la bellezza dei nostri borghi, vanto di un’Italia ammirata in tutto il mondo, non deve  essere di pretesto a un’azione di nera propaganda. Ci vuole più gusto della complessità. Le grandi città oramai prigioniere di se stesse, quando nella loro genesi storica sono state un fattore d’integrazione del paesaggio e dell’economia rurale, si profilano come entità politiche avvolte in un manto di autosufficienza improduttiva, specie se ad esse si lega (come avviene da decenni) la rappresentanza del sistema autonomistico. Perciò, in un quadro d’insieme, la formazione delle leggi risente della disarticolazione corporativa del mondo associativo degli enti locali. C’è la necessità, per altro, di correggere la distorsione provocata dalla cosiddetta razionalizzazione delle aziende a partecipazione comunale, per non precipitare nel ritorno ad uno schema pre-giolittiano, non distinguendo il “grano” (funzione economica attiva degli enti locali) dal “loglio” (cattiva gestione e pratiche clientelari). Più in generale, il grande comparto del welfare locale richiede una formidabile rivisitazione sul piano organizzativo e finanziario, onde si possa scongiurare la drastica contrazione dei servizi alla persona. Sull’ambiente urge un pensiero organico, un punto di vista complessivo, una strategia di fondo, afferrando la consapevolezza di un unicum che  passa dalla innovazione tecnologica, innervante le tematiche delle Smart Cities, alla tutela del territorio, specie nelle aree a rischio di desertificazione abitativa. 

Il dibattito tra gli amministratori esige massimamente la ristrutturazione di un modello politico di presenza e di collaborazione. Non solo nel quadro interno. Infatti, la stessa dialettica con il governo mette a nudo il ripiegamento avvenuto in questi anni nella contrattazione episodica e disorganica, fatalmente a vantaggio di pochi attori. L’Anci non è e non può diventare un segmento dell’apparato pubblico amministrativo.È un’associazione nata libera e che libera deve restare, anche rinunciando a qualche piccola convenienza. Chi vi opera, a nome delle migliaia di sindaci e amministratori locali, deve avvertire lo scrupolo di un servizio che si nutre di profondo senso di abnegazione. Gli organi vanno snelliti perché oggi non permettono di esaltare la democrazia interna. La figura del Presidente, a rigore, non può che essere quella del “primus inter pares”. Le Anci regionali hanno il diritto e il dovere di contribuire a un riordino della funzione rappresentativa, per incidere di più e meglio nella costruzione dei programmi associativi. Sulla struttura operativa occorre agire con oculatezza, valorizzando a pieno le diverse professionalità e correggendo alcune palesi distorsioni. L’Associazione ha bisogno al tempo stesso di coraggio e umiltà: l’uno per cambiare, l’altra per allargare il consenso attorno allo sforzo di innovazione. E dunque, con una rinnovata azione di tipo collegiale, occorre impegnarsi a fondo, nel tradizionale spirito unitario, per poter corrispondere adeguatamente alla domanda di un rinnovato protagonismo da parte di tutti gli amministratori locali: Sindaci, assessori, consiglieri comunali, Presidenti di Municipio.

Vogliamo un congresso di rifondazione, perché l’Anci  è un libro che accresce, con il variare delle circostanze, le sue pagine. Oggi spetta a noi, insieme, scrivere una pagina nuova per mettere al centro le autonomie e renderle ancora più forti nel contesto della società italiana.