Si è svolto ieri pomeriggio a Roma, presso il Teatro Rossini a Piazza Santa Chiara, un convegno sulla sanità nella cornice del grande tema della transizione antropologica. L’incontro è stato introdotto da due relazioni: una del coordinatore di “Agire politicamente” Lino Prenna (La transizione antropologica: dall’io al noi), l’altra di Suor Maria Grazia Caputo (Dalla pandemia alla guerra: una crisi umanitaria globale). Successivamente una tavola rotonda (Ripensare la sanità: per un umanesimo della cura) ,moderata da Massimo De Simoni, ha fatto il punto sugli aspetti più diretti e concreti della sanità (in particolare ne hanno parlato il consigliere regionale del Lazio Emiliano Minnucci e Lucio D’Ubaldo, direttore de “Il Domani d’Italia”). Nella circostanza è stato presentato un documento, elaborato a più mani e coordinato da Domenico Rogante, al quale si lega il testo (di seguito riportato) sullo specifico argomento delle RSA.
Il discorso sulle RSA merita un capitolo a parte, in quanto, come abbiamo potuto constatare in questi mesi, la gestione della pandemia ha riportato alla luce vecchi e nuovi problemi, con la conseguenza di aver portato queste strutture ad essere protagoniste della cronaca quotidiana per i focolai multipli che sono scoppiati al loro interno. Le RSA, nel pieno della prima ondata, si sono ritrovate da sole ad affrontare i problemi legati all’infezione da Covid-19, con il SSN che nell’immediato non ha saputo dare il giusto supporto a queste realtà, sia nella fornitura di DPI ma anche nella gestione degli spazi per gli isolamenti e della regolamentazione delle visite esterne. Questa situazione emergenziale ha reso ancora più critica la già difficile situazione economica all’interno delle RSA: la riduzione della saturazione dei posti letto, il contingentamento degli ingressi, i posti letto per la quarantena, l’acquisto continuo dei DPI, la sostituzione degli operatori che si ammalano o finiscono in quarantena, ha messo a dura prova i bilanci, soprattutto di quelle strutture più piccole, vicino alle comunità e gestite dal no-profit.
Tuttavia, l’analisi su queste strutture non può essere circoscritta alla gestione della pandemia, in quanto le avvisaglie di carenze strutturali c’erano già da diversi anni. Il problema italiano è che gli anziani sono ricoverati nelle RSA ormai quasi a fine vita e in condizioni di fragilità estrema, ma i finanziamenti pubblici non sono sufficienti a garantire l’assistenza sanitaria necessaria. Il DPCM del 22/12/1989 definiva le caratteristiche strutturali, organizzative e gestionali delle RSA. Prevedeva la suddivisone degli spazi con nuclei di 20 posti (per un massimo di 60 ospiti) e i diversi servizi comuni. Sostanzialmente si trattava di una tipologia strutturale che metteva insieme l’impostazione del reparto ospedaliero con aspetti che ricordavano la casa (salotto, sala da pranzo ecc.).
Negli anni questa impostazione è stata un po’ stravolta: si sono realizzate strutture più grandi, motivate da esigenze economico e gestionali di ottimizzare i costi sempre più crescenti. Tutto questo si è accentuato anche a seguito dell’ingresso nel settore di fondi d’investimento e soggetti multinazionali di assistenza che, a differenza del no-profit, si aspettano un ritorno remunerativo dell’investimento effettuato e quindi ampliano la capienza delle strutture.
A questa organizzazione già di per sé precaria, si è aggiunta l’esigenza di dover far fronte alla presenza di ospiti con demenza che ha portato ad interventi di compartimentazione e chiusura che hanno dato a queste strutture un’organizzazione sempre più “sanitaria”, con un prevedibile peggioramento delle condizioni di vita all’interno e con pesanti ripercussioni sull’umore dei pazienti.
Tutto ciò è stato accentuato dalla pandemia in corso, in quanto la soluzione “sanitaria” necessaria è stata quella di impedire ogni accesso per evitare l’ingresso dell’infezione. Ma se si riflette, anche in precedenza queste strutture risultavano essere isolate rispetto al mondo esterno, con le famiglie spesso poco coinvolte nel percorso di cura.
In realtà, le famiglie sono attori del processo di cura e interlocutori fondamentali nella relazione con il paziente e questo richiede una riflessione che valorizzi il loro ruolo di alleati nel perseguire il benessere dell’anziano.
Alla luce di queste valutazioni, riteniamo fondamentale che si offrano una serie di servizi utili per dare risposte graduate secondo l’evolversi del bisogno di assistenza che l’invecchiamento può determinare.
In questo modo, le RSA diventerebbero una delle possibilità di cura, dedicate prevalentemente alle situazioni più gravi, dentro una rete di servizi più ampia, che veda come primo luogo di cura la casa, attraverso un’efficiente assistenza domiciliare.
La tipologia di anziani che le RSA continueranno ad assistere sarà quella di anziani gravemente compromessi, pluripatologici e con disturbi cognitivi complessi, per i quali le cure sanitarie saranno indispensabili, ma non si potrà prescindere dalla necessità di questi pazienti di mantenere una vita di relazione, per quanto possa essere limitata dalle patologie acquisite.
Occorrerà inoltre che le RSA siano in rete con tutti i servizi territoriali: mmg, assistenza domiciliare, altre strutture residenziali leggere, ospedali, ambulatori specialistici, servizi sociali, associazioni di volontariato ecc., diventando a loro volta un centro di servizi per la comunità circostante.
Accanto alle RSA, sarà necessario potenziare anche la rete degli Hospice, centri destinati prevalentemente agli ammalati terminali, essenzialmente oncologici, che dovrebbero essere maggiormente diffusi nel territorio lì dove sono operanti le strutture ospedaliere, come rimedio all’accanimento terapeutico, per assicurare la migliore qualità di vita possibile attraverso la terapia antidolore.
La pandemia ha confermato quello che era noto già prima, ovvero che le strutture con più personale di assistenza hanno retto meglio all’impatto del COVID-19. Un adeguato rapporto tra personale di assistenza e ospiti delle strutture residenziali permette di garantire un’assistenza migliore. Per questo, occorre investire su una formazione più puntuale degli/delle ASA/OSS, operatori fondamentali dell’assistenza nelle RSA, che sia non solo focalizzata sulle tecniche assistenziali, ma completata con competenze relazionali fondamentali per l’assistenza agli anziani. La formazione è strettamente legata anche al riconoscimento professionale ed economico di tutti gli operatori che lavorano nel settore sociosanitario. Per questo, sarà necessario aprire una seria riflessione sulla proposta di equiparazione dei contratti per gli infermieri delle RSA a quelli della sanità ospedaliera, al fine di frenare la fuga di personale sanitario dalle strutture residenziali.
Nota aggiunta
Il convegno è stato aperto dal saluto di Porfirio Grazioli, Presidente del centro romanesco “Trilussa” e allietato, a metà riunione, da una esecuzione musicale molto apprezzata della giovane violinista ucraina Mariana Khachaturian.