Tratto dall’edizione del 26 giugno dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese
La conoscenza che gli europei hanno delle culture africane è stata fortemente condizionata dalla visione di un continente sine historia, di matrice coloniale. Un’interpretazione che trova la sua sintesi nel pensiero del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il quale, nella sua «Filosofia della Storia» del 1831, scrisse che l’Africa «non è una parte del mondo storico, essa non presenta alcun movimento o sviluppo, e quello che è avvenuto in essa nella sua parte settentrionale appartiene al mondo asiatico ed europeo». Pertanto, il marchio di subalternità impresso sul continente è risultato per molto tempo funzionale al distanziamento e all’alterizzazione in cui si confinava un’Africa disprezzata perché considerata senza scrittura e senza Storia. Eppure, mai come oggi, sarebbe auspicabile che si tenesse maggiormente conto dello straordinario deposito di saperi Afro, non foss’altro perché la moderna ricerca storiografica dovrebbe e potrebbe consentire il superamento del pregiudizio.
Purtroppo, dobbiamo constatare che le indagini rimangono spesso recluse nel campo di ricerca degli specialisti all’interno delle accademie (etnologi, antropologi e, più ancora, linguisti) senza intercettare sufficientemente il grande pubblico. Basterebbe solo pensare al valore immenso della tradizione orale africana che, anche nella contemporaneità, continua a nutrire e plasmare le culture autoctone, manifestandosi in ogni genere di comunicazione.
A questo proposito è degna di menzione l’osservazione del professor Alessandro Triulzi, docente di Storia dell’Africa all’Università degli Studi di Napoli: «[Noi africanisti italiani] abbiamo studiato più gli Stati e i loro sviluppi storici esterni che non le società e i loro percorsi interni di crescita. Abbiamo privilegiato le ricerche di archivio più di quelle sul terreno. Più la storia degli apparati e delle legislazioni coloniali che non l’incontro tra colonizzati e colonizzatori che ha caratterizzato l’azione di dominio e di forzata coabitazione di ogni “situazione coloniale”. È di conseguenza mancato quel fertile incontro di fonti scritte e di storia orale, di storia coloniale e di storia africana, di continui negoziati e rimandi fra ricercatori, fonti ed esperienze storiche e culturali diverse che hanno dato i frutti più consistenti e innovativi nella ricerca africanistica internazionale».
Detto questo, non sono comunque trascurabili le difficoltà che gli scrittori africani incontrano nel trovare degli editori disposti a pubblicare nei loro rispettivi Paesi. Date le caratteristiche del mercato librario, l’editoria africana versa in condizioni di estrema difficoltà, soprattutto per la concorrenza che proviene dalle multinazionali e per il fatto che i libri sono sempre troppo costosi per la maggioranza dei lettori africani. Motivo per cui la maggior parte degli autori mirano, più o meno intenzionalmente, al mercato internazionale, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Questo dell’editoria africana è un ambito in cui la cooperazione allo sviluppo dovrebbe decisamente intervenire, affermando il mutuo vantaggio nella conoscenza d’ogni genere di alterità. Per dirla con le parole di Francis Scott Fitzgerald, «questa è fra le cose più belle della letteratura: scopri che i tuoi desideri sono universali, che non sei solo, che non sei isolato da nessuno. Sei parte di».
Ma andando al di là delle possibili generalizzazioni, è evidente che oggi non sia possibile parlare di una letteratura Afro al singolare, essendo comunque le produzioni nazionali, pur nei limiti sopra esposti, ricche e variegate. Naturalmente, la lista degli autori africani è comunque lunga e multiforme. Basti pensare al compianto statista senegalese Léopold Sédar Senghor, accademico di Francia, letterato, poeta di fama internazionale o al keniano Ngugi wa Thiong’o, scrittore, poeta e drammaturgo, considerato uno dei principali autori del continente. Da segnalare, in particolare la tradizione narrativa nigeriana, approdata in Italia con autori del calibro del Nobel per la letteratura Wole Soyinka, del poeta e romanziere Ben Okri o del grande Chinua Achebe, scomparso nel 2013. In riferimento a quest’ultimo, è doveroso segnalare nel 1990 la pubblicazione, in Italia, di «Viandanti della storia», con un’introduzione critica redatta da Itala Vivan, in cui viene illustrata con grande efficacia la lettura politica della contemporaneità compiuta dal grande narratore epico nigeriano. Sovviene, in conclusione, una bellissima fiaba tratta proprio dal romanzo di Achebe, in cui viene riportato il colloquio tra un leopardo e una tartaruga in articulo mortis. Quest’ultima, chiese un favore prima di morire: un minuto per preparare il suo animo; il leopardo, che da tempo cercava di catturare la preda, non trovò alcunché di male nel soddisfare la richiesta della sua vittima. «Ma invece di restare immobile come il leopardo si aspettava, la tartaruga cominciò a fare strani movimenti frenetici sulla strada, grattando con le mani e con i piedi e gettando sabbia in tutte le direzioni. “‘Perché fai così?” chiese il leopardo perplesso. La tartaruga rispose: “‘Perché vorrei che dopo la mia morte tutti quelli che passano di qui dicessero “Sì, qui qualcuno ha lottato contro un suo pari”. Ecco gente questo è quanto stiamo facendo noi. Stiamo lottando. Forse per nessun altro fine se non che quanti verranno dopo di noi possano dire: È vero, i nostri padri furono sconfitti, ma almeno ci provarono».
I protagonisti di «Viandanti della Storia», Chris e Ikem, muoiono opponendosi a un regime militare che determina confusione, pessimismo e sopraffazione. Il romanzo, finemente politico, di Achebe fa una dura analisi della Nigeria in un periodo della storia successivo al grande slancio nazionalistico che l’aveva portata all’indipendenza. Chris e Ikem sono degli eroi destinati a morire, ma che cercano lo stesso di lasciare un segno della propria lotta nel nome della libertà e della giustizia. In un mondo globalizzato, dove l’idealità sembra essere scavalcata da un pragmatismo esacerbante, sradicato dai valori, il tentativo di Achebe è quello di riflettere sugli interrogativi più tormentosi che assillano la società. Anche la letteratura africana può aiutare, in questa prospettiva, a comprendere il vissuto di popoli lontani dall’Occidente ma paradossalmente vicini nel villaggio globale.
Forse la differenza tra noi e loro risiede nella consapevolezza: loro di morire da tartarughe, mentre noi ignoriamo un simile destino costretti però a vivere come se niente fosse. Ma in questo mondo che ci appartiene, tutti abbiamo la grande responsabilità di consegnare ai posteri l’impegno condiviso per un mondo migliore.