L’autore propone un’incursione nell’estate della sua infanzia, immaginando di associare a questo ricordo una generazione che quel tempo l’ha vissuto, forse con analoghe esperienze. Il testo rappresenta un capitolo del libro ‘Ligure Lombardo’, scritto molti anni fa, ora fuori commercio. Provinciali ne aveva già pubblicato uno, ovvero “Le piazze di paese dove siamo cresciuti” (ospitato anche “Il Domani d’Italia”), ricevendo un inatteso, grande successo (con i complimenti anche di diversi Colleghi o Scrittori, con la C e S maiuscole).
Francesco Provinciali
Quando ero piccolo ma in grado di capire le cose, dopo aver fatto i compiti uscivo da solo o con gli amici e mi fermavo a giocare nei paraggi di casa. Si andava in bicicletta nel corto rettilineo tra la fontanella ‘d’aegua bronzinna’ (di acqua del rubinetto) e la piazza della chiesa N.S. Assunta di Genova Prà Palmaro. Era un tragitto breve ma a noi sembrava una tappa del Giro d’Italia, era dritto e piatto ma noi ci vedevamo curve, salite e discese. Nei primi tempi usavo le bici degli amici fino a quando i miei genitori non me ne avevano comprato una tutta mia: costava diecimila lire ed era usata ma a me sembrava quella di Gimondi.
Quando, qualche anno dopo, era venuto Gino Bartali – che non correva più da tempo – a inaugurare la sede di un supermercato COOP, io ero lì, in prima fila a cavalcioni della mia Bianchi. Mia nonna, una donna molto religiosa, mi aveva spiegato l’importanza di quella chiesa: era ‘plebana’, cioè nei tempi antichi aveva la giurisdizione ecclesiale più estesa del circondario e poi aveva conservato quel titolo nei secoli successivi. I miei compagni di sgambate in bici erano Seba (Sebastiano) e Davide. In casa del primo, che era anche mio compagno di classe alle elementari, ci andavo a fare lunghe partite a Monopoli ma perdevo sempre: lui ‘comprava’ terreni, case e alberghi e mi mandava puntualmente in rovina.
Giocavamo anche coi trenini elettrici, da lui e da me, ma il suo era un costoso Rivarossi e il mio un più modesto Lima.
Qualche volta lo invitavo io e si faceva una gran cagnara in casa mia, con lui e i miei fratelli, allora molto piccoli. Si saltava ripetutamente su un vecchio divano, facendo un gran baccano, fino a quando si affacciava mia mamma sulla porta della sala e ci diceva “fate i fetentoni?”, e quello era il segnale per piantarla lì. Quel divano, che noi bistrattavamo come una rete da circo equestre, era in realtà un pezzo di antiquariato lombardo, di cui i miei genitori si erano disfatti in cambio di un ‘trumeau’ da ingresso, di quelli fatti in serie, per ritrovarlo poi sontuosamente ristrutturato e rimesso a nuovo, in vendita a una cifra astronomica nella vetrina del mobiliere.
Oltre alla bici si giocava pure a pallone, in piazza, ma a quell’occupazione ci avrei dedicato più tempo in seguito quando, crescendo, ero stato ammesso alla ristretta cerchia di iniziati che potevano godere di quel privilegio. Nel tempo libero si andava nella sede di azione cattolica: tutti i ragazzini della mia età erano iscritti ‘d’ufficio’ al gruppo degli ‘aspiranti’: c’erano il calcetto, il biliardo (ma quello era riservato a chi ci sapeva fare) e tante stanze a disposizione dove, alla domenica, si andava pure a catechismo. In giro non c’erano molti altri svaghi né occasioni di divertimento: la mia generazione è cresciuta così, in mezzo alla strada. Bevevamo alla fontanella o alle canne dei contadini ma nessun genitore aveva mai mandato un esposto all’ASL per verificare la purezza dell’acqua: forse perché le ASL non esistevano ancora e forse perché loro, i nostri amati genitori, avevano visto di peggio durante la guerra.
Ricordo che a carnevale ci mascheravamo con quello che si trovava, al massimo ci compravamo una pistola e un cappello da sceriffo e ci divertivamo così, senza annoiarci e senza fare i bulli. Alla parata del ‘carossezzo’ (sfilata in maschera) si partecipava tutti e le bambine venivano premiate per i loro costumi: avevano addosso i vestiti dismessi delle nonne ma vincevano classificandosi con la più nobile livrea di “damine dell’800”. Di quel punto, davanti alla sede del vecchio municipio locale che comprendeva anche i giardinetti pubblici, dove avvenivano quelle premiazioni, ho un ricordo particolare: di una volta che c’era stato un alto prelato, posizionato in cima alle scale esterne in pietra del palazzo che, rivolgendosi al folto pubblico di bambini presenti, non ho in mente per quale circostanza, aveva maliziosamente chiesto: “preferite la mamma che avete a casa o quella che avete in cielo?”. E tutti in coro, ero rimasto stupito da quello slancio, proprio incoraggiati dalla tante e tante mamme presenti, avevano urlato: “quella del cielo!”.
Avrei voluto alzare la mano per dire che no, in quel momento, io preferivo la mia di mamma, quella che avevo a casa ma non l’avevo fatto intuendo, come tante altre volte mi è poi capitato nella vita, che sarei stato guardato male, di traverso, come un disadattato. Ripensandoci oggi credo che se si riproponesse l’occasione questa volta parlerei, ma senza polemica: solo per dire che tra le due mamme, per un bambino di quella età non doveva esserci conflitto. Una la vedeva, ed era quella che gli scodellava la minestra e gli rimboccava le coperte e l’altra, di cui a quell’età aveva solo vagamente sentito parlare, non avrebbe trovato nulla da ridire ad una sua eventuale scelta più sincera. Se la situazione si ripetesse oggi uscirebbero fuori nell’ordine: la privacy, la pluralità dei credi e delle confessioni, l’ingerenza negli affari di stato e il complesso di Edipo. Non è trascorso un secolo ma anche questo è un segno dei tempi.
Dalle parti di casa mia, nelle strade interne, girava il camioncino del ghiaccio e noi gli davamo la caccia, specie d’estate. In tutte le case non c’erano ancora i frigoriferi, sarebbero arrivati di lì a poco insieme alle cucine americane in formica e ai lavelli inox: usavano le ghiacciaie, che non producevano il ghiaccio ma lo consumavano lentamente per conservare i cibi e sembrava già un lusso così. Questo camioncino si trascinava appresso una fila di petulanti mocciosi, tra i quali c’ero pure io: come si fermava si partiva all’assalto, come i pirati che abbordano una nave in rada. L’autista era un bonaccione, non si scocciava mai e ci spezzava col punzone delle piccole scaglie che noi leccavamo fino alla loro consunzione: mai mangiato dei ghiaccioli così buoni.
Era solo acqua, non avevano né gusto né colore, quei sorbetti, ma il refrigerio che concedevano era impagabile. Qualche tempo dopo venne cambiato l’autista e quello nuovo non era così comprensivo come il suo collega: ci prendeva a calci nel sedere come ci vedeva avvicinare al cassone. Nel frattempo nelle latterie e nei bar era iniziato il commercio dei ghiaccioli veri, quelli di marca e se ne vendevano in gran quantità: marca “Conti” e si poteva vincerne un altro se nello stecchino si trovava la scritta ‘hai vinto!’. I miei erano contrari ai ghiaccioli, dicevano che rovinavano la pancia, al massimo mi concedevano il camillino, il pinguino o la coppa dei piccoli. Allora io li mangiavo lontano da casa e poi mi sciacquavo bene le labbra per non lasciare tracce di colore.
Ricordo che una volta una buonanima di donna – che Dio l’abbia in gloria – mi aveva visto mentre me ne mangiavo uno e, chissà perché, era corsa a dirlo a mia mamma. A casa ero stato sottoposto a un interrogatorio di terzo grado e mi sentivo tremendamente in colpa: il ghiacciolo mi era piaciuto ma poi mi era andato di traverso. “Hai mangiato una coppa o un ghiacciolo?” incalzava lei e io confesso che quella volta avevo spudoratamente mentito: “una coppa – avevo risposto – di quelle con la ciliegia”. E questo era uno dei peccati possibili del tempo, magari neanche facilmente perdonabili.