Lezioni dall’Umbria

Non sono ancora del tutto chiare le ragioni, ma è da circa un decennio che abbiamo capito che ci sono luoghi che si sentono abbandonati e messi ai margini da grandi processi di modernizzazione economica e tecnologica.

Articolo pubblicato dalla rivista il Mulino a firma di Marco Valbruzzi

Dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018 in Italia si sono tenute dieci elezioni regionali. Se si escludono i casi particolari della Valle d’Aosta e della provincia di Bolzano, il centrodestra ha vinto in tutte le consultazioni, comprese quelle che, come nel caso dell’Umbria, si sono svolte in contesti storicamente difficili. Che anche in Italia oggi stia spirando un vento sovranista, cioè una diffusa domanda di protezione, a cui i due principali partiti di destra (Lega e Fratelli d’Italia) hanno saputo fornire una risposta efficace sul piano elettorale, è fuor di dubbio. Molto più incerte sono invece le ragioni che stanno dietro a questa lunga serie di vittorie. Dalle ultime elezioni regionali in Umbria si possono però ricavare alcune indicazioni che ci aiutano a comprendere il successo della destra e, di riflesso, la sconfitta del centrosinistra e del Movimento 5 Stelle.

1) Uno o Nessuno. La prima lezione ha a che fare direttamente con l’identità delle forze politiche che si presentano alle elezioni. Per anni ci siamo raccontati “democrazie senza scelta”, dove le sfumature tra i partiti (e i governi) di centrosinistra e quelli di centrodestra erano così impercettibili che agli elettori interessava poco se al governo ci fossero gli uni o gli altri. In fine dei conti sono la stessa cosa, si diceva; facce speculari di una stessa medaglia, una sola unica casta. Il che, per certi aspetti, è stato anche vero, almeno fino a quando non sono piombati sulla scena i tanto disprezzati leader populisti a raccontarci che la globalizzazione non è un dogma, che l’Unione europea non è un mantra, che il multiculturalismo non è un destino, che l’austerità non è una manna. A molti, compresi alcuni studiosi, questi partiti populisti sono sembrati un po’ come quegli ubriachi capitati per sbaglio a una cena di gala, che se ne fregano delle buone maniere e sputano in faccia agli altri ospiti verità scomode che per quieto vivere si preferiva tacere. Ora il re dei partiti mainstream (socialdemocratici, liberali e democristiani) è nudo e pensare di cavarsela innalzando qualche barriera istituzionale o formando Größe Koalitionen sempre più ristrette è solo un modo per rimandare la questione senza risolverla. In una fase di grande trasformazione – e dunque di grande incertezza – gli elettori non sanno che farsene di partiti incerti dall’identità ignota. I partiti con un’identità sicura prevalgono perché offrono mappe chiare, risposte nette e approdi certi. Non è un caso che alle scorse elezioni europee gli unici partiti vincenti siano stati Lega e Fratelli d’Italia: due forze politiche che sanno bene – e altrettanto bene sanno comunicarlo – chi sono e che cosa vogliono. Anche il M5S fino al 2018 sapeva chi e cosa era: un movimento di protesta contro i privilegi della classe politica, spina nel fianco dell’establishment. Ma non appena è diventato anch’esso parte del sistema, l’identità si è smarrita e con essa il suo elettorato.

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