L’identità è una menzogna, dice Appiah, ma si presenta come qualcosa che ci lega ad altri esseri umani. 

Riproponiamo per gentile concessione la parte conclusiva del lungo articolo pubblicato su “Notes et Documents” (n. 47/48), rivista dell’Istituto Internazionale Jacques Maritain. Il titolo originale è “Il discorso politico sull’identità. Perché non si deve semplificare quando si parla di identità”.

Domenico Melidoro 

[…] abbiamo cercato di mostrare come le semplificazioni in materia di identità socio-politica possano produrre dei fenomeni preoccupanti sia in politica interna sia nello scenario internazionale. Il populismo, nel descrivere l’opposizione tra popolo e élite fa ricorso a delle semplificazioni tipiche dell’essenzialismo in materia di identità. Una strategia analoga è praticata, anche se in un contesto molto differente, dai sostenitori della lettura del nuovo ordine globale in termini di scontro fra civiltà. Dunque, le semplificazioni sull’identità non sono soltanto cattiva filosofia. 

Non si tratta, in altri termini, di faccende che interessano quei pochi che si occupano professionalmente di questioni filosofiche. Si tratta invece di fenomeni politici che comportano rischi concreti per la stabilità e la pace del mondo contemporaneo. Dopotutto, anche il fanatismo può essere ricondotto alle semplificazioni di cui abbiamo parlato in queste pagine. Come scrive Amos Oz, «conformismo e uniformità, il bisogno di appartenere e il desiderio che tutti gli altri appartengano sono tra le forme più diffuse, benché non pericolose, di fanatismo». Anche il fanatismo, di qualsiasi orientamento religioso o spirituale, si nutre di semplificazioni. Il fanatico ha bisogno di rappresentarsi il mondo sociale in modo estremamente schematico, senza sfumature. 

Nella visione del fanatico esistono da una parte i buoni (di cui egli fa parte) e dall’altra i cattivi (verso cui opera il suo istinto di redenzione). Il gruppo dei buoni è disposto a tutto, perfino a sacrificare la propria vita, pur di salvare gli altri. Questi gruppi, ci dice il fanatico coerentemente con l’essenzialismo, sono perfettamente distinguibili e hanno una identità comune molto forte che li lega in modo indissolubile. 

Come si reagisce a quanto detto finora? Bisogna abbandonare del tutto la nozione di identità? Dopotutto, secondo Appiah, dalle cui riflessioni abbiamo preso le mosse, l’identità è una menzogna. Una seria analisi filosofica mostra che spesso il concetto di identità non regge a un attento scrutinio, vale a dire che le pretese di ricondurre a unità le multiformi manifestazioni dell’identità umana sono destinate al fallimento. Eppure, di questa menzogna, gli esseri umani non possono fare a meno perché, sempre per riprendere Appiah, è una menzogna che ci lega ad altri esseri umani, e questi legami sono fondamentali per I’ autocomprensione umana e per cogliere il senso della realizzazione di una vita eticamente riuscita. 

Esiste un bisogno umano all’identificazione con altri esseri umani di cui non possiamo privarci. Rinunciare al concetto di identità, dunque, non è auspicabile né umanamente possibile. Sono però disponibili almeno due risorse per evitare che il discorso sull’identità incorra in semplificazioni che possono mettere in pericolo la perpetuazione di una vita associata pacifica e armoniosa. Ci riferiamo innanzitutto a una operazione filosofica di smascheramento delle semplificazioni in cui la riflessione sull’identità può incorrere. Una seria analisi deve aiutarci a decostruire significati acquisiti e mostrare, anche a livello empirico, che la realtà umana è contraddistinta da pluralismo, diversità e divenire, e che ogni forzata riduzione all’unità e alla omogeneità comporta la violazione dei diritti individuali su cui si reggono i nostn ordinamenti liberal-democratici. 

Inoltre, gli esseri dotati di immaginazione, cioè la capacità di immaginare l’altro come soggetto morale dotato di una irriducibile complessità. L immaginazione è, come si dice, la capacità di mettersi nei panri degli altri, di capire che gli altri hanno un modo diverso di vedere le cose. Questa capacità può dimostrarsi una risorsa molto utile nel reagire alle fallaci

del discorso sull’identità, smascherando le semplificazioni in cui i discorsi identitari finiscono per cadere. Le arti, ma soprattutto la letteratura, sono essenziali a tal proposito. Per dirla con le parole di David Grossman,

la letteratura suscita nel lettore lo stimolo a osservare un individuo, a cercare di capirlo, a studiare bene il suo lessico interiore, i suoi valori, i suoi errori, le sue paure, i suoi momenti di grandezza. La letteratura è l’inizio di una coscienza politica senza la quale sarebbe impossibile cambiare in meglio.

Prendere sul serio questo suggerimento significa sforzarsi di percepire la complessità della vita umana e contrapporsi a quegli atteggiamenti che, nel tentativo di semplificare, ci impediscono di cogliere alcuni aspetti essenziali dell’esperienza umana, in particolare la pluralità e la diversità.

Domenico Melidoro

Docente presso la Università LUISS Guido Carli di Roma. Componente del Comitato direttivo di Ethos.