È sbagliato considerare il ricorso al lavoro agile come un ripiego temporaneo, in una condizione eccezionale. Invece è una soluzione che può generare fattori di migliore produttività. Non solo. Con la riorganizzazione del lavoro cambia anche l’organizzazione della città.
Lo Smart Working o lavoro agile può essere senza dubbio considerato la novità più importante introdotta nel mondo del lavoro come risposta alla crisi pandemica. Non senza le iniziali difficoltà organizzative, figlie di una reazione obbligatoriamente “frettolosa”, i lockdown sono stati pressoché improvvisi, lasciando poco spazio alla pianificazione aziendale. Tuttavia, in ambito sia pubblico che privato, ha mostrato i suoi effetti benefici.
Qualche difficoltà si è avuta, ad esempio per la “congestione domestica” dovuta al peso della didattica a distanza per le famiglie con prole, ma nel complesso la qualità del lavoro a distanza si è fatta notare in fretta.
Le aziende hanno colto i vantaggi. Se infatti in passato lo spostamento da casa al posto di lavoro era considerato necessario, con lo smart working si è percepita l’utilità del poter “risparmiare” su spese considerate fisse. Si è potuto constatare, invece, che insieme ai risparmi per le aziende e i lavoratori, anche l’efficienza delle prestazioni è migliorata. È l’effetto, in sostanza, della digitalizzazione dell’economia.
Tuttavia, in questi giorni, il Ministro Brunetta ha dichiarato che una riduzione del lavoro agile, in primis per i dipendenti pubblici, avrebbe risvolti benefici sul PIL nazionale. Sta di fatto che alcuni settori (trasporti, ristorazione, immobiliare) rappresentano l’altra faccia della luna. Gli uffici vuoti spengono il dinamismo del mercato. Ciò non toglie, però, che le stime di istituti indipendenti segnalino il valore di una scelta strategica a favore dei nuovi strumenti di organizzazione del lavoro. Il World Economic Forum ha calcolato che negli Stati Uniti d’America il ricorso ingente allo smart-working ha portato ad un aumento della produttività pari al 4,6%. Per quanto riguarda l’Italia, uno studio di Pwc prevede un incremento del PIL pari all’1.2% grazie alla delocalizzazione in remoto delle mansioni che la tecnologia oggi ci permette di rendere “agili”.
In vari articoli apparsi di recente sull’Huffington Post e su “Il Dubbio”, Titti Di Salvo – già sindacalista, poi parlamentare e candidata candidata presidente per il Municipio IX di Roma – ha ben spiegato l’impatto positivo del nuovo modello di lavoro. È questo, a suo giudizio, vale anche per la pubblica amministrazione.
In effetti, pare anche a me insensato liquidare il lavoro agile come un ulteriore “devianza” del settore pubblico. Tutto dipende da come si riorganizza il lavoro: dire che nel pubblico il modello “smart” determini una perdita di produttività, equivale a dire che il “pianeta burocrazia” non è riformabile. Possiamo accettare questa conclusione?
D’altronde, ogni innovazione implica sempre risvolti ambivalenti. È vero che ci sono disagi, ma le opportunità non mancano. Quanto si risparmia, dal lato dei lavoratori, con il minore ricorso al pendolarismo urbano o extraurbano? E i nostri centri storici, benché da salvaguardare dal rischio di desertificazione, non possono per contro tornare a respirare, senza il sovraffollamento degli uffici? E poi, non è forse vero che le periferie, in questo lungo periodo di chiusure, abbiano comunque sperimentato la ripresa della vita comunitaria, dando nuova linfa all’economia (commercio e servizi) di prossimità e alla organizzazione del tempo libero?
Se dunque concordiamo che il lavoro agile non è stato solamente una risposta temporanea alla crisi pandemica, ma uno strumento che, unito alla digitalizzazione, può essere incardinato in un sistema diametralmente benefico per la collettività tutta, è tempo di ragionare effettivamente su ciò che non va, salvaguardando ciò che l’innovazione digitale ci ha donato e che, necessariamente, va migliorato e reso costante nel tempo.
Per concludere, al Ministro Brunetta, l’auspicio *di* non guardare al dito, ma alla luna: che sia da un balcone o da un co-working, la produttività non la fa un luogo, ma l’organizzazione dei soggetti stessi. Questa è la vera fonte di ricchezza: ciò che genera Pil.