Articolo già apparso su Servire l’Italia
L’ennesimo anniversario (il 100°!) della fondazione del PPI e di uno degli Appelli politici più importanti nella storia dell’Italia mi porta a due riflessioni iniziali, una negativa e una positiva.
La riflessione negativa mi dice che, nonostante tante celebrazioni in lode di questi due eventi storici, dalle parole non si è mai passati ai fatti, come se quel ricordo fosse utile solo per una formale e dovuta commemorazione, e non di stimolo a realizzare gli ideali di giustizia sociale e di libertà responsabile che il popolarismo sturziano proponeva.
Ma la riflessione positiva mi dice che il prezioso e sempre attuale patrimonio culturale del popolarismo non è affatto ibernato nel chiuso delle biblioteche. Sono idee che palpitano ancora di vita, circolano e fanno discutere, forse più di ieri, proprio perché quegli ideali di giustizia sociale e di libertà responsabile non si sono ancora pienamente realizzati nel nostro Paese. L’interesse per il pensiero e per la testimonianza di vita di don Sturzo è quindi ancora vivo. Ciò lo si deve al fatto che si tratta di un patrimonio culturale ricco di valori e di principi non dipendenti da ideologie o da mode passeggere, perché si tratta di valori e di principi derivanti in gran parte dal Vangelo e dalla dottrina sociale della Chiesa. Purtroppo molti politici li hanno ritenuti (e tuttora li ritengono) valori e principi difficili da seguire, tanto da giudicarle verità… utopiste. Ma don Sturzo non credeva affatto che Gesù e Leone XIII fossero due utopisti. Anzi per lui la vera utopia era credere che la giustizia sociale e la libertà responsabile si possano ottenere ignorando le verità evangeliche e i consigli della dottrina sociale della Chiesa. È davvero incredibile che questa semplice verità non sia stata ancora recepita dal mondo della politica, dopo tanti fatti storici che l’hanno convalidata.
Certamente nel 1891 il ventenne seminarista Luigi Sturzo non ritenne che fosse una utopia la seguente affermazione di Leone XIII scritta nella “Rerum novarum” e posta come “pietra d’angolo” della prima Enciclica sociale:
“IL CRISTIANESIMO HA RICCHEZZA DI FORZA MERAVIGLIOSA”
Con ciò Leone XIII voleva soprattutto dire che il Cristianesimo aveva una forza capace di abbattere l’impianto teorico della rivoluzione marxista, che in realtà rappresentava una “medicina” peggiore del male che voleva curare: la povertà e le pessime condizioni di lavoro degli operai. La vera giustizia sociale si poteva realizzare solo con la “rivoluzione” cristiana dell’Amore e con la stretta alleanza tra lavoro e capitale, anziché con l’abolizione della proprietà privata come voleva Marx per metterla tutta nelle mani capienti (ma poco efficienti) dello Stato.
E per ben 15 anni, dal 1905 al 1920, don Sturzo – come pro-sindaco di Caltagirone – dimostrò con i fatti che Gesù e Leone XIII non erano affatto due utopisti e che quella “ricchezza di forza meravigliosa” funzionava molto bene al servizio del bene comune. Con molta umiltà e con l’intelligenza di un “missionario” prestato alla politica, quando riceveva complimenti per il suo ottimo lavoro di amministratore pubblico, il pro-sindaco Sturzo era solito dire: “Non è farina del mio sacco, devo tutto al Vangelo e alla Rerum novarum”.
Il 20 gennaio 1901, a circa 10 anni dalla promulgazione dell’Enciclica leoniana, il giovane Sturzo – non ancora trentenne – scriveva che “ancora oggi, per somma vergogna, molti cattolici non conoscono quel prezioso documento”, da lui definito la ‘Magna Charta’ dei democratici cristiani. E il 15 maggio 1902, nel commemorare l’11° anniversario della famosa Enciclica, egli diede una profonda chiave di lettura dei mali che da sempre affliggevano (e tuttora affliggono) il mondo:
“Non è meraviglia se la società oggi non si adagia in nessuno dei partiti che dispiegano la bandiera della giustizia sociale; la giustizia, nella sua essenza, manca. Manca, perché manca l’amore verso il prossimo; e questo amore non vi è, non vi può essere, perché manca l’amore verso Dio; e l’amore verso Dio non vi è, né vi può essere, perché della religione se n’è voluto fare un rapporto soltanto privato e di coscienza, e non sociale; la religione è stata esclusa dalla società. La religione è un principio sintetico, che abbraccia tutti gli elementi della vita terrena per vivificarli del soffio della moralità, per ordinarli a un fine superiore, per elevarli con il carattere della supernaturalità”. E più avanti, nel suo discorso di commemorazione della “Rerum novarum”, don Sturzo ci faceva capire quanto fosse importante sfruttare quella “ricchezza di forza meravigliosa” per passare dalla profonda conoscenza del pensiero cristiano all’azione concreta capace di dare buoni frutti: “La parola della Chiesa non deve rimanere infruttuosa; essa non è solo principio di conoscenza, è principio di azione; essa deve animare le nostre aspirazioni e le nostre lotte, essa ci deve guidare e sorreggere, perché divina è la sua virtù. E spetta a noi attuare quegli insegnamenti nel vorticoso succedersi dei tempi e nel contrasto violento dell’attività umana. Noi cristiani e uomini del nostro tempo, chiamati per dovere di coscienza a scendere nel campo delle lotte pubbliche di pensiero e di azione, dobbiamo portarvi quell’elemento positivo che la Chiesa ci dà, che la ragione illuminata dalla fede ci suggerisce, che l’amore naturale, vivificato dal divino, ci impone; affinché nel cozzo dei fatti umani, che dipendono dalle nostre libere forze e dal nostro costante lavoro, possano la verità e il bene concretizzarsi nella società e prevalere nello svolgimento della storia”.
Erano parole forti, che troviamo fedelmente trasferite alla fine del famoso “Appello a tutti gli uomini liberi e forti” del 18 gennaio 1919: “Ci presentiamo nella vita politica con la nostra bandiera morale e sociale, ispirandoci ai saldi principi del cristianesimo, che consacrò la grande missione civilizzatrice dell’Italia, missione che anche oggi, nel nuovo assetto dei popoli, deve rifulgere di fronte ai tentativi di nuovi imperialismi, di fronte a sconvolgimenti anarchici di grandi imperi caduti, di fronte a democrazie socialiste che tentano la materializzazione di ogni idealità, di fronte a vecchi liberalismi settari, che nella forza dell’organismo statale centralizzato resistono alle nuove correnti affrancatrici”. La profonda fede e un grande coraggio portarono don Sturzo a combattere una difficile battaglia “civilizzatrice e affrancatrice” della società italiana contro l’egoismo di forze potenti, le vecchie forze (i liberali) e le nuove forze (i marxisti). Questo egoismo era ereditato da lunghi secoli di dominio dei pochi ma potenti benestanti sulla massa del popolo, che non aveva mai avuto alcuna voce in capitolo.
Al centro della società, con la loro corte e clientela, vi erano sempre stati i re, i principi, i baroni, i granduchi, i duchi, i conti, i marchesi e, talvolta, gli stessi pontefici. Questa realtà era “certificata” dalla cartina geografica dell’Italia segnata dai nomi indicativi dei sistemi intitolati ai potenti di turno: regno, principato, baronato, granducato, ducato, contea, marchesato, stato pontificio. In un simile contesto storico la voce del Cristianesimo – promotore di amore, rispetto e dignità per tutti gli esseri umani – non poteva essere in sintonia con la voce dei potenti, il cui principale interesse era di guadagnare più terra e più potere al duro costo di guerre continue. Per millenni la principale fonte di energia per coltivare la terra e per conquistarla era fornita dai deboli muscoli delle braccia dei tanti sudditi, per lo più “condannati” a essere soldati o contadini; questi erano appunto chiamati “braccianti”. Le loro braccia erano il vero “tesoro” a disposizione dei potenti, ma per il popolo erano braccia poco produttive, data la naturale debolezza dei muscoli umani. La povertà diffusa era causata dalla scarsa produttività di quei muscoli e i contadini venivano quindi pagati poco.
È molto significativo il diverso interesse dei potenti nei confronti dell’aratro e della pietra, ovvero il diverso interesse dimostrato per la “produttività” dei contadini e dei soldati. Per millenni sull’aratro non fu fatto alcun investimento; bastava sfruttare a basso costo i muscoli degli uomini e degli animali. Poi grazie all’invenzione del motore arrivò il trattore e l’aratro fu finalmente rottamato, ma solo dopo diversi millenni di completo disinteresse per alleggerire il duro lavoro dei contadini.
Invece sulla pietra i potenti hanno subito iniziato a investire molto: l’arma primordiale e meno costosa, la pietra, è stata via via sostituita con armi sempre più efficienti e costose, sino ad arrivare alla bomba atomica. È altrettanto significativo quanto è avvenuto dopo l’invenzione del volo umano, sognato e ritenuto possibile da Leonardo: per i primi decenni gli aerei furono guidati solo dai piloti militari. Ai piloti civili si pensò più tardi. perché questa straordinaria invenzione doveva innanzitutto servire a sterminare con maggiore efficienza i nemici. Ai potenti la “produttività” della guerra stava molto più a cuore dell’uso commerciale e pacifico degli aerei.
Morale: aveva ragione Gesù quando nell’ultima Cena, con una certa amara ironia, avvertì gli Apostoli di non seguire l’esempio dei “benefattori”: “I re delle nazioni le governano e si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così: chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa sia come colui che serve” (Lc XXII, 25).
In effetti la lunga storia dell’umanità ci dice che i “piani alti” del mondo politico ed economico sono stati spesso occupati da persone incapaci di testimoniare la grande validità e funzionalità delle verità evangeliche. Di conseguenza la missione civilizzatrice del Cristianesimo ha fatto fatica a farsi strada. Persino tra gli uomini di Chiesa vi era un tempo la convinzione o la rassegnazione che “così va il mondo, chi nasce ricco muore ricco e chi nasce povero muore povero, non c’è nulla da fare”. Peccato che i ricchi erano pochi, mentre i poveri erano tanti…
Ci fu pertanto una completa resa, anche della Chiesa, di fronte al duro sfruttamento da parte dei pochi “soggetti” sui molti “oggetti” della cosiddetta società civile, una società che in realtà era molto incivile e che purtroppo ancora lo è in diverse parti del mondo. Dopo aver letto la “Rerum novarum”, don Sturzo si ribellò contro questa resa e iniziò a dare il suo contributo per cristianizzare la politica e l’economia, dapprima a livello locale e poi a livello nazionale. La lunga esperienza di pro-sindaco di Caltagirone gli fece capire l’importanza dell’autonomia gestionale dei comuni, i danni prodotti dal potere accentratore ed eccessivo dello Stato, nonché l’esigenza di assicurare sempre il primato della morale nell’attività politica ed economica. Egli era solito dire che se la politica o l’economia calpestano la morale non hanno alcun diritto di chiamarsi “ragione politica” o “ragione economica”, perché in tal caso sono ragioni prive di ragione, ossia prive di razionalità e moralità. La storia ha sempre dimostrato che un regime politico e un sistema economico, che non considerino come valore fondamentale l’integrità morale dei suoi protagonisti, prima o poi sono destinati a crollare. I mali della società si possono correggere solo se è la ragione morale a guidare la ragione politica e la ragione economica; entrambe devono servire l’uomo e non servirsi dell’uomo. “Il denaro deve servire non governare” dice giustamente Papa Francesco. Quindi per don Sturzo cristianizzare la società voleva dire civilizzarla. Il suo famoso Appello del 18 gennaio 1919 era rivolto a tutti gli uomini liberi e forti, perché spettava a loro il compito di rendere libero e forte un popolo da sempre oppresso e sfruttato dai “piani alti” della politica e dell’economia. Il nome di “popolarismo” derivava da questa esigenza di giustizia e di civiltà che un partito aconfessionale, ma di ispirazione cristiana, aveva il compito di realizzare. Gli interessi del popolo dovevano essere portati al centro della società al posto degli interessi della ristretta corte dei re, degli imperatori, delle aristocrazie o, peggio, dei dittatori. Solo in un corretto sistema democratico si potevano realizzare gli ideali di giustizia sociale e di libertà responsabile che il popolarismo perseguiva.
Ma sappiamo che il suo generoso tentativo fu presto fermato dai poteri forti dell’industria e dell’agricoltura che favorirono l’avvento del fascismo per essere protetti dalla minaccia dei “rossi”. E dopo l’esilio fisico di ben 22 anni, don Sturzo dovette poi subire l’amarezza di venire esiliato anche culturalmente dagli “amici” democristiani, che criticavano la sua battaglia contro l’apertura a sinistra condotta al Senato e sulla stampa. Egli era convinto che, se il compromesso storico fosse stato concluso, sarebbe poi stato difficile realizzare un programma di governo ispirato da “quella ricchezza di forza meravigliosa” e nel pieno rispetto della moralità pubblica. Purtroppo ha avuto ragione. Ma non si può dire che la sua battaglia sia stata persa. Hanno certamente perso i suoi avversari degli anni ’20 e i suoi “amici” degli anni ’50. Il popolarismo è ancora attuale ed è da molti giudicato come il più valido antidoto al populismo. Inoltre riveste sempre una grande importanza la preziosa funzione pedagogica della buona politica, così come era concepita dal grande sacerdote e statista di Caltagirone. Egli credeva in una specie di processo di causa- effetto: la politica è utile se è buona ed è tale se è sostenuta dalla buona cultura. Questa si acquisisce attraverso lo studio del vero e del bene, studio a cui il Cristianesimo ha dato un decisivo contributo (purtroppo molti politici cristiani non lo hanno mai capito). La buona cultura è importante, perché esiste ed è spesso dominante la cattiva cultura, che si potrebbe definire – per chi è in buona fede – come lo studio di ciò che si ritiene vero, ma è invece falso o come lo studio di ciò che si reputa un bene, ma è invece un male.
Poiché gli esseri umani hanno ricevuto da Dio il grande dono della libertà e del connesso libero arbitrio, sono liberi di seguire il bene e di seguire il male, di fare cose giuste e di commettere errori. Come dire che la libertà può essere usata bene, cioè in modo responsabile, razionale, morale. E può essere usata male, cioè in modo irresponsabile, irrazionale e immorale. Quasi sempre il male e gli errori vengono fatti per mancanza di buona cultura o per abbondanza di cattiva cultura.
Ne consegue che per don Sturzo una delle più importanti forme di istruzione era l’educazione al buon uso della libertà, compito da svolgere ovunque: nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e persino nello svago. Ebbene per lui l’uso responsabile della libertà dipendeva in gran parte dal prevalere della buona cultura sulla cattiva cultura. Tutta la sua vita è stata un insegnamento e una testimonianza di buona cultura, perché alla base egli possedeva il tesoro di “quella ricchezza di forza meravigliosa”. L’augurio è che nell’anno del Centenario ciò venga capito e finalmente recepito dalla politica italiana.