L’unità sindacale nel nostro paese ha conosciuto alti e bassi. Una realtà quasi sempre riconducibile alla strategia delle singole organizzazioni sindacali e, soprattutto, alle concrete volontà e scelte dei rispettivi leader. Ma, comunque sia, è indubbio che ogni qualvolta si incrina il tema, peraltro decisivo ed essenziale per la stessa qualità della nostra democrazia, della unità sindacale è per la semplice ragione che qualche organizzazione privilegia la competizione politica e partitica rispetto alla missione principale che riguarda lo stesso sindacato. È il caso, nello specifico, del concreto comportamento della Cgil, e soprattutto del suo segretario genarle Landini, in questa precisa fase politica del nostro paese. Del resto, è abbastanza evidente, nonché oggettivo a tutti coloro che non hanno pregiudizi ideologici, che quando un sindacato diventa un attore decisivo – se non addirittura ‘l’attore’ – della contesa politica in un paese rinuncia, di fatto, ad esercitare il suo antico ruolo per intraprenderne un altro. Ormai non fa neanche più notizia.
Quando si parla del cartello progressista e di sinistra alternativo al centro destra non si citano soltanto i tre partiti che fanno parte di quello schieramento – e cioè il Pd della Schlein, i populisti dei 5 stelle e il partito del trio Fratoianni/Bonelli/Salis – ma si indica proprio nella Cgil il punto di rifermento essenziale e nevralgico per costruire quel progetto politico e auspicabilmente di governo. Al punto che molti osservatori sostengono, e anche giustamente, che non si sa più se è la Cgil che detta l’agenda politica ai tre partiti o se sono i tre partiti che la dettano alla Cgil.
Certo, per fermarsi agli ultimi due fatti politicamente molto rilevanti, è indubbio che il peso della Cgil di Landini nel condizionare e nell’orientare le scelte dei tre partiti è stato decisivo se non addirittura determinante. Mi riferisco, nello specifico, alla vicenda dei quesiti referendari del prossimo 8/9giugno e, soprattutto, alla recente e solenne bocciatura al Senato della legge che prevede l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione repubblicana in merito alla partecipazione dei lavoratori alla vita concreta delle aziende e delle imprese nel nostro paese. Un provvedimento fortemente voluto dalla Cisl e che va a riempire un vuoto che durava da 77 anni ma che, al contempo, ha registrato, puntualmente, la bocciatura senza appelli della Cgil e, di conseguenza, dei tre partiti della sinistra italiana. Scelte concrete, cioè, che confermano in modo persino plateale che ormai c’è un collegamento organico e diretto tra i comportamenti dello storico ‘sindacato rosso’ e i rispettivi partiti dello schieramento progressista.
Ora, e al di là di qualsiasi altra valutazione politica, è abbastanza evidente che quando l’unità sindacale è a rischio o in crisi come in questi ultimi tempi, sono gli stessi lavoratori che rischiano di pagare il prezzo più salato. Sia perché diminuisce il potere contrattuale nei confronti dei datori di lavoro e sia perché la polarizzazione politica ed ideologica compromette il ruolo e la mission storica e specifica di un’organizzazione sindacale come prevede e scrive la stessa Costituzione.
Ecco perché lo sforzo di ricostruire una vera, autentica e credibile unità sindacale – come non si stancava di ripetere, sempre, un grande dirigente sindacale nonché autorevole leader politico, ma dopo la sua militanza nella Cisl, Franco Marini – resta una delle priorità del nostro sistema democratico. Certo, molto se non tutto dipende da chi guida le singole organizzazioni. Perché se l’obiettivo principale resta quello di partecipare attivamente al gioco politico nei vari partiti e schieramenti sarà lo stesso sindacato a perdere progressivamente peso e autorevolezza. Tra i lavoratori e nella stessa società.