L’uomo inconsapevole e colpevole: il paradosso del Processo di Kafka.

Una simbologia che abbraccia la vita e la morte, perché tutti siamo in fondo colpevoli di qualcosa. “Il processo” racconta l’epilogo esistenziale di un uomo chiamato ad un processo mai celebrato.

“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”.

(F. Kafka, Il processo)

Franz Kafka, nato a Praga nel 1883 e morto di tubercolosi nella stessa città nel 1924, scrisse “Il processo” tra il 1914 e il 1915 e, anche se l’opera rimase incompiuta, la prima edizione fu pubblicata postuma nel 1925. Uscì a cura del suo amico ed esecutore testamentario Max Brod, uno scrittore boemo che aveva ricevuto in consegna il manoscritto nel 1920. Questi ebbe il merito di salvare l’intero archivio delle opere incompiute di Kafka, il quale aveva invece manifestato il desiderio che fossero bruciate alla sua morte. Come scrisse Bruno Schulz nella prefazione dell’edizione del 1936: «Il romanzo, che Max Brod ricevette nel 1920 dall’autore sotto forma di manoscritto, è incompiuto. Alcuni capitoli frammentari, che avrebbero dovuto trovare la loro collocazione prima del capitolo conclusivo, vennero da lui separati dal romanzo, basandosi su quanto dichiarato da Kafka, e cioè che questo processo in idea è a dire il vero incompiuto e che le sue ulteriori peripezie non avrebbero apportato più nulla di essenziale al senso fondamentale della questione.»  La prefazione di Schulz viene riportata dall’edizione Feltrinelli come introduzione. Fu grazie a questo provvido salvataggio dei suoi scritti da parte dell’amico Brod che Franz Kafka,” sconosciuto in vita divenne famoso subito dopo la sua morte. Lasciandoci in eredità, anche contro la sua stessa volontà, tra i vari scritti uno dei capolavori assoluti della letteratura mondiale del ‘900, un romanzo distopico che costituisce l’allegoria dell’angoscia esistenziale (in questo Kafka stesso riconosceva in Kleist e Dostoevskij ‘una parentela di consanguineità” mentre Thomas Mann vi leggeva una ispirazione metafisica e la ricerca di Dio. Tanto che l’espressione “situazione kafkiana” è entrata nell’uso comune per riferirsi a condizioni esistenziali assurde, paradossali, razionalmente inspiegabili, angoscianti appunto. Anche la persona più metodica, ordinata, abitudinaria, priva di eccessi – e l’impiegato di banca Joseph K. non era dissimile da questa sommaria descrizione – improvvisamente una mattina (il giorno del suo 30° compleanno) può ricevere la visita di personaggi sconosciuti che gli comunicano un ordine di arresto, pur consentendogli  di continuare da casa l’attesa del processo e di  recarsi al lavoro: una soluzione narrativa sui generis che ricorda la condizione degli arresti domiciliari, ma non c’è una notifica formale, un capo di imputazione, tutto resta sospeso in una delirante  e continua attesa di un motivo, di una esplicitazione degli addebiti, soprattutto di quale sia il reato di cui viene accusato. Quella sera stessa, al ritorno dal lavoro parla di quanto accadutogli con la sua affittuaria, la signora Grubach. La padrona di casa lo rassicura circa l’arresto: «Lei non deve prendersela troppo a cuore. Che cosa non capita nel mondo!».

La descrizione del tribunale ove Josef si reca come da convocazione, la miriade infinita di stanze, aule, porte, scale, sottotetti comunicanti che si estendono a dismisura fin oltre la pianta del palazzo e di personaggi (figure torbide, inquietanti, ammiccanti, elusive, formali, severe, untuose, grottesche), che si incardinano alla perfezione in questo contesto ambientale, istituzionale e simbolico dove Josef K. pur chiedendola con insistenza non riesce ad avere una spiegazione al suo arresto, una motivazione al suo preannunciato processo, tratteggia un sistema giudiziario sordo e ottuso, in cui la burocrazia è tanto impietosa quanto cieca, pervicace e imprevedibile. Durante la prima udienza, molto affollata, il giovane K. tenta di difendersi spiegando l’illogicità manifesta della situazione: si trova lì, davanti a giudici e ad un folto pubblico senza conoscere i motivi della sua imputazione. La platea gli è ostile ed ogni sua argomentazione viene confutata o respinta ma senza spiegazione alcuna. L’ambiente è decisamente opprimente, come potrebbe esserlo ogni sede giudiziaria, ma l’intrico di dedali, scale, solai, sottotetti, aule, uffici e la presenza di altri numerosi imputati, tutti in attesa del “loro processo”, rende il contesto incomprensibile, non esiste un nesso tra atto di costituzione di K. e accusa, mai chiarita, tutto rende quel luogo assurdo e soffocante, tanto che uno di quei giorni Josef si sente male e viene portato fuori da quegli stambugi, nelle scale. 

Sono altresì presenti figure e azioni che nulla hanno a che vedere con il decoro di aule giudiziarie e che Josef incontra: una donna che fa il bucato e dice a K. che è atteso in udienza, un uomo e una donna appartati in atti sessuali, (lei è la moglie compiacente di un usciere), un pittore ritrattista per il tribunale che gli anticipa tre esiti possibili del processo. Sono dunque evidenti in modo stridente ed ambiguo i temi dell’incomunicabilità, del turbamento e della tentazione sessuale in una promiscuità fuori luogo e forse lasciva, della solitudine, dell’inquietudine e dei sensi di inadeguatezza e di colpa dell’uomo di fronte al mistero della vita, della sua impotenza a trovare la risposta al problema della precarietà esistenziale, che manda in frantumi ogni tentativo di darle un ordine emotivamente rassicurante. 

 

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