Signore e Signori,

sono veramente molto lieto di essere qui oggi, insieme al Presidente della Repubblica d’Austria – e dargli il benvenuto – al quale mi lega un rapporto, oltre che di stima e di fiducia, di sincera amicizia, che si rinnova a ogni nostro incontro.

Questa è un’occasione per riflettere su ricorrenze molto significative per la storia di questo territorio e, insieme, per i rapporti tra i nostri due Paesi.

Un incontro prezioso per volgere il nostro sguardo al futuro. Per trarre ammaestramenti affinché gli errori non si ripetano.

Perché il ricordo del dolore e delle ingiustizie del passato, sofferti particolarmente nell’incontro tra la dittatura fascista e quella nazista, spingano a continuare ad assicurare alle nuove generazioni pace, armoniosa convivenza, benessere individuale e collettivo,

Il Trattato di Saint Germain poneva fine all’Impero austro-ungarico e, con esso, l’Italia raggiungeva la sua sospirata unità nazionale.

Trentatré anni di alleanza con gli Imperi centrali non erano riusciti a risolvere l’aspirazione italiana a raggiungere – nei termini della realtà militare di quel tempo – un “confine sicuro”.

Un traguardo, quello conseguito, che poneva indirettamente anche sull’Italia l’onere di garantire, per parte sua, l’indipendenza austriaca, difendendone la specificità di fronte alla forza di attrazione del mondo tedesco che – dissolto l’Impero – diveniva fortissima.

L’Europa faceva i conti con una generazione perduta nel conflitto. E il dolore delle famiglie accomunava tragicamente vinti e vincitori.

Nelle Regioni teatro di guerra e, tra queste, il Tirolo meridionale, alle difficoltà di un ritorno incerto alla vita normale si aggiungevano povertà, fame e malattie oltre all’onere della ricostruzione di interi paesi ormai quasi completamente distrutti.

La ripresa per queste terre, con un confine internazionale, fu particolarmente difficile.

Il Regno d’Italia si trovava, per la prima volta, a incorporare territori abitati da popolazioni di lingua non italiana.

Le promesse salvaguardie e tutele della identità culturale della popolazione di lingua tedesca, che pure furono allora formulate, incontrarono crescenti ostacoli nella loro attuazione e rimasero, ingiustificatamente, in gran parte disattese.

Alle difficoltà del primo dopoguerra si aggiunsero, nel giro di pochi anni, le politiche repressive promosse dall’affermarsi del regime fascista.

Oggi, insieme al Presidente Federale Van der Bellen – che ringrazio – ci raccoglieremo in silenzio a Bolzano, davanti al muro che ricorda l’ex lager di via Resia – testimone di immani tragedie. E renderemo omaggio alla figura del maestro Franz Innerhofer di Marlengo che, nel 1921, in quella che è passata alla storia come la “Blutsonntag”, fu ucciso mentre cercava di proteggere uno scolaro dall’aggressione fascista.

Furono intollerabili gli attacchi portati dalla dittatura ai diritti individuali e collettivi della minoranza, in un insensato tentativo di sostituzione di popoli nel nome della “italianizzazione” dei territori.

Si radicò così, nell’alleanza tra nazismo e fascismo, la politica della “pulizia etnica”: o tedeschi nel Reich o italiani in Italia.

Fu la scelta delle opzioni imposta dalle due dittature.

Ricorrono, in questo 2019, ottant’anni da quella intesa italo-tedesca, di poco successiva al Patto d’acciaio, che sacrificando sull’altare di regimi autoritari le istanze popolari locali, divise la stessa comunità interessata tra “Optanten” e “Dableiber”.

Nessun valore veniva più attribuito alla persona, alla convivenza, alla ricchezza culturale e alla specificità propria di ogni zona di confine, in cui le identità si confrontano e crescono insieme.

Si parlò, invece, di “allogeni”, intollerabile questione che, pochi anni dopo, la Costituzione repubblicana ha risolto radicalmente alla base, con la formulazione del primo comma del suo articolo 3.

Fu una violenza che vide il trasferimento di decine di migliaia di abitanti del Tirolo meridionale nel Reich tedesco: una migrazione forzata interrotta soltanto dagli sviluppi della Seconda guerra mondiale.

Il dopoguerra, con la sconfitta delle potenze dell’Asse, consentiva alle neonate Repubbliche democratiche di Austria e Italia di partire con un passo nuovo.

Ed è proprio sulla base di un rifiuto netto, deciso, totale, dei regimi che avevano trascinato il Continente nell’abisso del conflitto che, nell’immediato dopoguerra, De Gasperi – che queste terre conosceva bene – si fece voce della nuova Italia, concludendo, con Karl Gruber, l’accordo giustamente passato alla storia con i loro nomi.

Fu merito di quel testo lungimirante – che annullava l’odiosa pulizia etnica delle opzioni – se l’Alto Adige/Südtirol fu l’unico territorio nel quale venne consentito e favorito il rientro nella terra avita di quanti lo avessero voluto, mentre in tutta Europa avveniva il contrario, con il trasferimento forzato di milioni e milioni di persone appartenenti a popolazioni di lingua tedesca.

Nel secondo dopoguerra l’Alto Adige/Südtirol rimane davvero come un unicum assoluto.

Fu così possibile vedere riaccolte le famiglie che avevano raggiunto – a partire dal 1939 – il Reich tedesco, con la garanzia da parte del governo democratico di Roma dell’ottenimento della piena cittadinanza italiana.

Ecco il legame e la responsabilità che uniscono passato, presente, futuro.

La sapiente lungimiranza degli statisti di quell’epoca la possiamo misurare appieno anche soltanto confrontando le recenti, drammatiche, vicende che hanno segnato la vita delle popolazioni balcaniche nei decenni scorsi.

Questi temi, nell’Europa unita, appaiono remoti, distanti, appartenenti a un altro mondo.

Eppure è necessario richiamarli, a fronte di immani tragedie che si ripropongono, di voci che si levano incuranti delle macerie spirituali e materiali che quelle idee sciagurate avevano determinato.

La memoria rappresenta la pietra angolare contro pericolosi virus che sono in agguato, sempre pronti a infettare i tessuti vitali delle nostre società.

Per intima convinzione di De Gasperi – che seguì personalmente la questione sino a quando fu al Governo – l’Italia repubblicana fece quello che si sarebbe dovuto fare sin dal 1919.

Previde per la minoranza uno “status” autonomo, ristabilì diritti, assicurò tutele, comprese la ricchezza che proveniva da un territorio composito e si impegnò per accrescerla.

Certo l’attuazione dell’autonomia ebbe un percorso complesso, tortuoso, non sempre veloce.

Ha anche attraversato periodi bui.

Penso alla parentesi del terrorismo, dei 47 attentati della notte dei fuochi e di quelli – di ricordo doloroso – contro le persone che provocarono vittime.

Ma ha conosciuto fasi – prevalenti – di intensa collaborazione.

A partire dal determinante quarto congresso straordinario della Südtiroler Volkspartei, del 22 novembre di cinquant’anni or sono, e dalla decisione assunta in quella sede, non senza tormenti, sotto la guida illuminata e sagace del Presidente Silvius Magnago.

Mi sembra significativo riproporre in merito un commento dell’allora Ministro degli Esteri italiano, Aldo Moro, riguardo alla storica decisione della SVP.

Moro non si soffermò su valutazioni di tipo tecnico-giuridico ma – nel solco di De Gasperi – sottolineò che occorreva “procedere generando fiducia nella nostra lealtà e buona volontà”.

Fiducia e lealtà sono state importanti nel rapporto che, anche su questo tema, si è sviluppato con la Repubblica d’Austria.

E, quando questi elementi hanno prevalso rispetto a divisivi preconcetti, è stato possibile compiere importanti passi in avanti.

Ogni qualvolta questi ingredienti sono mancati, si sono prodotte incomprensioni, le divergenze hanno prevalso, si è generato lo stallo.

Le posizioni che Vienna e Roma hanno assunto riguardo alla questione alto-atesina sono ben conosciute e non serve richiamarle in questa sede.

Mi sembra tuttavia utile ricordare come l’allora Ministro degli Esteri, Giuseppe Saragat, nel ribadire la tradizionale posizione italiana – si era nel 1964 e di lì a pochi mesi sarebbe divenuto Capo dello Stato – ebbe ad aggiungere che la differenza di opinioni non “avrebbe dovuto influire sulla soluzione della controversia, con una formula che rispettasse e salvaguardasse i due punti di vista”.

Soluzione che trovò ventisette anni fa il riconoscimento di una piena e conclusiva composizione della vertenza in sede di Nazioni Unite. Come abbiamo ricordato insieme, con il Presidente Van der Bellen, qui a Merano.

In questi anni, grazie a quell’approccio, il treno dell’autonomia dell’Alto Adige/Südtirol non soltanto procede, ma ha compiuto un lungo e positivo percorso.

Questo spirito deve animare anche il nostro essere qui, insieme, oggi.

L’Alto Adige/Südtirol costituisce un esempio di autonomia a livello mondiale, che assicura non soltanto la serena convivenza, ma lo sviluppo armonioso di questo straordinario territorio, portando benessere e prosperità anche nelle sue aree più periferiche.

Da strumento di tutela dell’identità di una minoranza, l’autonomia – da garantire con decisione, da parte delle Istituzioni – ha abbracciato sempre più anche una dimensione territoriale, sviluppando un complesso di regole che garantisce crescita sociale ed economica a cittadini di gruppi linguistici diversi, impegnati a fornire ciascuno un proprio contributo originale al futuro di una terra comune.

Una traiettoria perfettamente coerente con il procedere del progetto di integrazione europea, nel quale l’amica Repubblica d’Austria e la Repubblica Italiana sono, insieme, direttamente impegnate.

Dobbiamo essere consapevoli che in un mondo sempre più globalizzato soltanto il disegno europeo sarà in grado di rappresentare e di proteggere le nostre comunità permettendoci di continuare ad accrescere il nostro sviluppo sociale.

Al di fuori di questo progetto non vi può essere, in realtà, per i popoli europei, né sovranità né indipendenza, bensì l’esatto contrario.

È il crescente livello di collaborazione garantito dall’Unione a proteggere le comunità nazionali e i cittadini europei, da tensioni esterne così forti che nessun Paese europeo, da solo, potrebbe fronteggiare.

In una comunità europea di valori, in un sistema di sovranità condivisa, possiamo far valere la nostra voce, elaborare risposte a fenomeni come la crisi climatica sulla quale condividiamo medesime sensibilità.

Possiamo riuscire a rimanere al livello dei grandi attori internazionali, senza timore di divenire – gli europei – marginali.

Signor Presidente Federale Van der Bellen,

Signore e Signori,

nel grande ambito europeo, ciascun popolo sa di rappresentare una minoranza, perché l’Europa nasce composita e la sua forza consiste nel saper unire le diversità.

Nei secoli si sono gradualmente affermate identità, tradizioni, modi di vivere, da rispettare e salvaguardare. La loro sintesi rappresenta la maggiore ricchezza della civiltà europea.

Sono fermamente convinto che in Alto Adige/Südtirol abbiamo contribuito e stiamo contribuendo a tutto questo.

Questa Provincia, tutti gli altoatesini-sudtirolesi, di lingua tedesca, italiana, ladina, rappresentano quanto ha auspicato il Presidente Kompatscher: “una piccola Europa nel cuore dell’Europa”.

Grazie! Vielen Dank!