Quando venne a Roma la regina Meloni-Cleopatra non poté abitare dentro le mura della città imperiale, Cesare la fece accomodare nei suoi terreni fuori città detti Horti di Cesare, che quanto ad estensione erano più grandi della Roma di Servio Tullio, sesto re di Roma. La regina Meloni-Cleopatra vi si piazzò con tutta la corte sua, che non era poca gente, e aspettò come le disse Cesare l’occasione per entrare in città. E quell’occasione venne.
Il popolo romano curioso di vedere la regina che abitava al di là delle mura, la chiamò a gran voce, e da regina, sul suo carro entrò città. Cesare le fece fare un giro come promesso. Molte statue e molti ampi spazi detti fori, dove il popolo si raduna e pure i nobili che lì vicino hanno la loro sede. Ma ecco, al Campidoglio vede una statua di bronzo ed esclama: “Ah, pure voi fate le statue al cane come famo noi con dio Anubi”. “Zitta, l’ammonì Cesare, nun te fa sentì, quella è una lupa, la lupa nostra che ci ricorda le origini nostre, allatta i nostri fondatori, che sono gemelli, ma uno solo divenne re”.
“E quelli chi sono?”, disse lei indicando un gruppo di uomini vestiti di bianco. “Ah, so’ i nostri sacerdoti, il capo lo chiamiamo pontifex maximus, e per governare devo avere pure l’appoggio loro”. E aggiunse: “Nun te lo dimentica’ regina, votano pure loro e i voti qui ce servono tutti”. Lei nei mesi successivi se lo dimenticò.
Comunque Cesare le riferì tutti i detti romani, e le favole pure, che avevano protagonista l’animale sacro di Roma, il lupo e la lupa. In bocca al lupo, crepi il lupo, attento al lupo, non gridare sempre al lupo al lupo, una fame da lupo, chi si fa pecora il lupo se la mangia, il lupo perde il pelo ma non il vizio, tempo da lupi, essere una lupa, ecc. Dei molti detti sarebbe bene che ricordasse per sé quello del pelo e del vizio.
Aveva cominciato modestamente quasi in imbarazzo per il voto plebiscitario che l’aveva portata all’attenzione di Cesare, ma alle fine del secondo anno di governo, la voce da imperial-comandante le è venuta fuori. E con essa pure il linguaggio delle popolane romane del porto di Ripetta Grande, che sta ai confini degli Horti di Cesare, frequentazione quasi obbligata tra vicine di casa. Sale sul palco preparato per darle lustro e arringa’ i suoi e li blandisce con la promessa che cambierà anche gli altri territori del vasto impero di Cesare, che non lo farà con la forza ma sarà il suo esempio a venir copiato: sta nel giusto, sta nella storia e di lei si parlerà negli anni. Lasciatela andare lì nel vasto impero di Cesare, qui ha fatto bene e lì i suoi non potranno che fare altrettanto seguendo i suoi insegnamenti. Così parla che sembra apparire il furore selvaggio della caccia alla preda che i lupi praticano, per fame però non per gloria di sé.
Tuttavia la regina è abituata a carri trionfali, popolo osannante, sacerdoti servili, con tutto che gira a sua gloria, perché il faraone è l’Egitto stesso.
Orbene, sotto un sorriso benevolo, gli occhi grandi, il pelo lustrato, compare il canino lungo della specie sua, non il lupo, ma il leopardo delle sabbie egizie, che corre veloce e caccia solitario. I romani per ora applaudono il ferino sguardo, Cesare però sente lontano, molto lontano, il barrito degli orsi che accompagnano gli helvetici di Schelly, e le genti vicine al di là delle Alpi. Non è affare per lupi questo che si paventa in città, e nel vasto impero. Cesare intanto consulta il pontifex maximus per sapere che sorte lo attende in città e se i druidi delle genti di oltre le Alpi portano buone nuove.
Infatti, ci vorrebbero buone nuove.