Già pubblicato su Huffingtonpost

Che il centro sinistra, in Italia, vada ricostruito dalle fondamenta è un dato che ormai non fa neanche più notizia. Che sia politicamente tramontata la cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Partito democratico è un dato altrettanto indiscutibile. Che sia necessario, in un sistema fortemente proporzionale, rideclinare la “cultura delle alleanze” per competere ed eventualmente vincere le elezioni è un aspetto da cui non si può più prescindere.

Ora, per affrontare seriamente questa situazione, va rimessa in campo una coalizione credibile, seria, plurale e di governo. Una coalizione che, però, non può più essere decisa e pianificata a tavolino. Come pensano in modo un po’ surreale Calenda e il neo segretario del Pd Zingaretti. La concezione gramsciana dell’egemonia non è pertinente con la fase storica che stiamo vivendo e i partiti o i movimenti che fanno parte della potenziale alleanza non possono essere decisi dall’alto. Innanzitutto perché sarebbe un’operazione politicamente ed elettoralmente fallimentare e, in secondo luogo, perché una coalizione è tale se rappresenta realmente pezzi di società veri, interessi sociali riconoscibili e valori culturali vissuti e radicati. L’esatto contrario di operazioni aristocratiche ed elitarie decise e pianificate dall’alto.

Ora, se da un lato è necessario aprire realmente il cantiere politico, culturale e programmatico della futura coalizione facendo sì che la sinistra ritorni a fare la sinistra e il centro a fare il centro, c’è un nodo antico che continua a non essere sciolto. O meglio, molti ne sono a conoscenza, ma fingono di non saperlo. Mi riferisco, per citarlo con parole ormai collaudate, alla presenza della cosiddetta “sinistra al caviale”. Al netto della polemica politica e del disprezzo verso tutto ciò che è riconducibile alla sinistra o al mondo progressista, è indubbio che da troppo tempo nel nostro paese alcuni “maitre a penser” della sinistra italiana trasmettono, forse anche inconsapevolmente, un messaggio elitario, aristocratico, alto borghese che si identifica con un “ceto sociale” radicalmente estraneo ed esterno a tutto ciò che può essere riconducibile, anche solo vagamente, ai ceti popolari, ai loro bisogni, alle loro esigenze e alle loro aspettative. Anche qui, lo sanno tutti ormai, i bisogni e le aspettative dei ceti marginali, periferici, più poveri e meno tutelati sono intercettati e rappresentati da altri. Ieri l’altro addirittura da Berlusconi, ieri dai 5 stelle e oggi in massa dalla Lega di Matteo Salvini. Del resto, ci sarà pure un perché se questi bisogni popolari ed interessi sociali non guardano più a sinistra neanche con il binocolo. Ed è proprio su questo versante che si inserisce il dibattito sulla “sinistra al caviale” o, per dirla con un linguaggio ancor più attuale, sulla “sinistra da Ztl”, quella dei centri storici e del centro delle grandi città. Come, puntualmente si è verificato nelle ultime elezioni europee ed amministrative. Ed allora sorge, in modo quasi spontaneo, una domanda molto secca: ma perché la sinistra italiana continua a fidarsi ciecamente degli esponenti – noti a tutti, senza neanche il bisogno di fare nomi e cognomi – riconducibili alla cosiddetta “sinistra al caviale”? È così difficile arrivare alla conclusione che quando i punti di riferimento più popolari e noti della sinistra sono ricchi milionari ed espressione degli interessi alto borghesi con stili di vita che solo una porzione ridottissima di italiani può permettersi, dicono poco o nulla ai ceti popolari e ai loro bisogni che si vorrebbe rappresentare? E, di conseguenza e come ovvio, proprio quei ceti e quegli interessi sociali guardano altrove e votano, in massa, partiti e movimenti che con la sinistra non hanno più nulla con cui spartire.

Forse ha ragione Massimo D’Alema quando, con la consueta chiarezza ed efficacia argomentativa, individua nella “rottura sentimentale” la ragione decisiva della crisi della sinistra nei luoghi più popolari della società italiana e la difficoltà, di conseguenza, nel rappresentarli politicamente e culturalmente. Sotto questo versante, sarebbe auspicabile che anche il neo segretario del Pd non fingesse di non sapere che questo problema è tuttora sul tappeto e che prima o poi dovrà essere affrontato. Perché con questi “testimonial” alto borghesi, elitari ed aristocratici difficilmente si incrementano i consensi tra i ceti popolari.

Perché questo, alla fine, è un problema che riguarda l’identità e il ruolo della sinistra nella società italiana ma è anche, e soprattutto, un problema che riguarda l’intera coalizione di centro sinistra. Non capirlo significa regalare un vasto consenso elettorale e politico agli avversari da un lato e pensare veramente che, dall’altro, questi “testimonial” sono i migliori rappresentanti dell’attuale sinistra italiana. Con tanti saluti, però, ai ceti popolari, ai più disagiati, agli “ultimi” e a tutti coloro che nelle pubbliche occasioni si blatera di rappresentare e di farsi carico delle loro esigenze e dei loro problemi.