Mi chiamo Bob Dylan e vengo da lontano. Il menestrello di Duluth nel “quadretto” del direttore dell’Osservatore Romano.

Un musicista straordinario, un maestro della parola. Spesso considerato “il poeta” per eccellenza del rock, non ha mai fatto mistero del suo senso di gratitudine nei confronti della musica degli altri.

Nel 1962 Bob Dylan ha 21 anni e si chiama ancora Robert Allen Zimmerman, è un giovanotto con le guance belle, cicciotte e glabre e gira imbacuccato per il Greenwich Village a New York avendo addosso una chitarra e soprattutto ancora il freddo del Minnesota. Canta qua e là nel locali del Village, se uno oggi volesse “vedere” quel mondo dovrebbe guardarsi il bel film dei fratelli Cohen A proposito di Davis in cui si intravede, nell’ultima sequenza un attore che fa proprio la parte del giovane cantautore. Durante le registrazioni di un album di Carolyn Hester in cui Robert suona l’armonica lo scorge John Hammond, produttore della Columbia Records e intuendo qualcosa, gli dà un’occasione: il 19 marzo esce l’album Bob Dylan, questo il nome che si è scelto, che viene inciso in soli tre pomeriggi per una spesa di appena 402 dollari.

Tredici brevi brani di musica folk di cui però, attenzione, solo due scritte da Dylan: Talkin’ New York e Song to Woody. Il resto solo cover di brani di artisti che avevano anch’essi inciso per la Columbia. L’album fu commercialmente un fiasco, vendendo circa 2500 copie. La canzone dedicata a Woody Guthrie, il folksinger grande modello in quel momento per il giovane Bob, dice, sin dai primi due versi, molto di quella storia che stava nascendo proprio con quell’album (e che oggi 60 anni dopo, vede Dylan come monumento non solo del folk, ma del rock, della letteratura e della cultura del Novecento): «I’m out here a thousand miles from my home,/ Walkin’ a road other men have gone down» (Sono qui a un migliaio di miglia da casa, / camminando per una strada già attraversata da altri).

Fuggito dalla casa paterna, Dylan non è mai più tornato, ed è vero per lui il ritornello di una delle sue canzoni più famose, Like a rolling stone: è lui questa pietra che rotola “no direction home”. La lunga parabola di 60 anni, oggi che Dylan a 80 anni continua a rotolare generando musica e canzoni, inizia con questo omaggio al suo maestro Guthrie e una serie di cover, cioè di altri omaggi.

Un dettaglio che fa riflettere. Aggiungiamone un altro, sullo stesso solco, realizzatosi a metà di questa strada, quando nel 1992 si tenne un grande concerto-tributo in onore di Dylan al Madison Square Garden in occasione del trentesimo anniversario dell’uscita del suo primo disco. In quell’occasione dopo che una incredibile parata di star si erano cimentate, con esiti diversi, nel “cantare Dylan”, alla fine arriva lui che con la sua “broken voice” intona, come prima canzone della sua breve performance, proprio Song to Woody.

La scelta era corretta filologicamente, visto che si celebrava quel primo album, ma era anche significativa, come se Dylan stesse dicendo: voi tutti siete qua per “tributarmi gli onori”, ma io sono arrivato fin qua grazie a Guthrie e questo è il mio piccolo tributo personale al mio maestro.

In quello stesso anno Dylan aveva inciso un album Good as I been to you, che, proprio come 30 anni prima, era interamente dedicato a vecchie canzoni folk rivisitate con l’aiuto della sola chitarra e armonica. Ma Dylan ha sempre avuto un rapporto intenso con le cosiddette cover. Lui che è stato spesso considerato “il poeta” per eccellenza del rock non ha mai fatto mistero del suo senso di gratitudine nei confronti della musica degli altri.

A rivedere la sua carriera s’intuisce che, pur essendo un autore per il quale l’appellativo “genio” non sembra sprecato, egli assomigli anche a un tedoforo, una persona che ha una fiaccola, un testimone da passare alle nuove generazioni, una fiaccola che è partita molti anni, anzi secoli, prima. Sin da quel primo album del 1962, questa scelta di “citare per tramandare” lo ha sempre accompagnato. Quel primo disco si intitolava Bob Dylan ed era per lo più di cover, otto anni più tardi, nel 1970, incide un doppio album, anche questo zeppo di cover che ha la facciatosta di chiamare SelfPortrait e di corredare con un suo disegno che, a modo suo, corrisponde al titolo (Dylan è anche un interessante disegnatore). L’album non fu molto gradito alla critica, anche a quella più favorevole a Dylan: Greil Marcus con la famosa domanda: «Cos’è ‘sta merda?». Nel 1973 esce l’album Dylan, un’altra raccolta di cover e così anche a metà degli anni Ottanta con Knokcked out loaded, Down in the groove e World gone wrong del 1993.

Nel 1988 parte il suo NeverEndingTour (una tappa ogni due giorni in giro per il mondo) in cui, in quasi ogni concerto, trova lo spazio per almeno una canzone non sua, scritta magari quando Dylan non era nemmeno nato. In genere si tratta di brani tradizionali tra il blues e il gospel, che Dylan pone all’inizio del concerto, come apertura (le scelte più ricorrenti sono: Roving Gambler, I am the man, Thomas, Halleluia, I’m ready to go, Somebody touched me, Cocaine blues, Not fade away) proprio a voler ribadire: io provengo da lì, da un mondo e da un tempo immemorabili, per citare Time out of mind (1997), il migliore tra i suoi album di quel periodo. Invecchiando Dylan sembra procedere verso una vecchiaia che coincide con la sua giovinezza, infanzia e prima ancora. Lo aveva peraltro pre-detto in My Back Pages, famoso brano del 1964: «Ah, ma ero molto più vecchio allora/sono molto più giovane adesso».

Può sembrare sorprendente questo continuo uso di cover da parte di Dylan: il più prolifico artista del rock che potrebbe effettuare 30 concerti di 30 canzoni l’uno, tutte sue, e invece si diverte a citare, a rinviare, e proprio così, forse, ad “indicare la strada”, come disse di lui John Lennon. Che proprio nel ‘62 cominciava anche lui con i suoi amici, la propria gloriosa strada… ma questa è un’altra storia.

 

[Fonte: L’Osservatore Romano del 26 marzo 2022]