Una tradizione torinese che continua
Ci sono tre buone ragioni, tra le molte altre, che spiegano l’importanza della recente omelia del cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino, in occasione della festa del patrono della città capoluogo.
Innanzitutto, e senza alcuna piaggeria, non si può non sottolineare che anche con questo intervento – ma non solo, come ovvio – la Chiesa torinese prosegue quel cammino di evangelizzazione e, al contempo, di profonda attenzione al contesto territoriale di riferimento.
Da Pellegrino a Ballestrero, da Saldarini a Poletto a Nosiglia, il vertice della Chiesa cattolica torinese e metropolitana si è sempre fatto carico delle esigenze, delle domande e delle criticità sociali, economiche e culturali che attraversano la società.
E il cardinale Repole, anche e soprattutto con la sua ultima ed importante omelia, ha richiamato questa specificità ed originalità squisitamente torinese.
Un messaggio anche per la politica
In secondo luogo, la riflessione dell’arcivescovo di Torino – al di là del merito della questione sulla possibile e potenziale redistribuzione della ricchezza e dei consistenti depositi bancari presenti in città – interpella direttamente i vertici politici e istituzionali locali.
Senza alcuna polemica e senza presunzione o invasione di campo, è indubbio che avere una visione della società a medio/lungo termine è un’esigenza politica che quasi si impone quando si parla di come reinvestire socialmente la ricchezza presente in città.
E, su questo versante, credo che la coesione e la collaborazione istituzionale tra il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio e l’attuale sindaco di Torino Stefano Lo Russo rappresentino indubbiamente un significativo valore aggiunto ai fini dell’elaborazione di un progetto di governo del territorio.
Perché l’esortazione e la riflessione del cardinale – che non poteva ovviamente spingersi oltre – richiedono appunto un salto di qualità anche della politica locale. E quando dico “politica locale” mi riferisco alle scelte concrete che possono incentivare chi dispone di maggiori ricchezze a investire nel territorio circostante.
Il cattolicesimo sociale chiama all’impegno
In ultimo, ma non per ordine di importanza, la riflessione di Repole rilancia anche una specificità – e non solo torinese – che ha sempre caratterizzato un segmento significativo della presenza dei cattolici nella società italiana.
Mi riferisco, nello specifico, a quel cattolicesimo sociale che proprio in questa città e in questa regione ha giocato un ruolo politico, culturale e programmatico di grande rilievo. Basti citare due nomi per rendersene conto: Carlo Donat-Cattin e Guido Bodrato.
Senza scomodare i “santi sociali” che hanno segnato in profondità l’identità, il profilo e la stessa presenza pubblica dei cattolici. Un cattolicesimo sociale che parte dalla denuncia dei mali e delle criticità che affliggono un contesto sociale e che cerca, però, di dare risposte altrettanto concrete a quelle istanze.
Certo, nel pieno rispetto dell’autonomia dei piani – religioso e politico, innanzitutto – e nella convinzione che però ognuno si debba assumere la piena e laica responsabilità dell’azione.
Ma, su questo versante, e anche alla luce delle sollecitazioni concrete che provengono dalla Chiesa, forse è anche arrivato il momento che chi proviene da quella tradizione politica e culturale esca definitivamente dal letargo e scenda in campo aperto, come si suol dire.
Perché, per citare ancora una volta Donat-Cattin: “La politica è innanzitutto coraggio e coerenza. E non soltanto calcolo degli interessi”. E proprio la storia, il pensiero, la tradizione e la prassi del cattolicesimo sociale adesso devono battere un colpo.
A cominciare proprio da Torino e dal Piemonte.