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Nadia Urbinati riconosce, a fatica, che solo i cattolici democratici hanno dato dignità al centro. Che cosa significa oggi?

 

Dietro la politica di centro della Dc c’era una cultura di governo e un criterio direttivo, operava dunque una visione strategica, tanto da far dire a De Gasperi che il suo era un partito di centro in cammino verso sinistra.

 

Lucio D’Ubaldo

 

Dinanzi a gracili argomentazioni, la critica di chi vede nel centro una scelta ambigua, senza qualità politica, si carica di facile eloquenza. “Il centro si definisce per assenza “, ha scritto polemicamente Nadia Urbinati sul Domani (25 giugno 2022). È difficile darle torto, se la causa di questi conati centristi riporta immancabilmente alla ricerca, pur legittima ma non esaustiva, di uno spazio di rappresentanza politica. Uno spazio che non ospita, appunto, valori e aspirazioni, bensì soltanto ansia di posizionamento.

 

Di sfuggita, però, la nota firma del giornale di De Benedetti esprime nell’articolo un concetto meritevole di più attenzione e discernimento: “I centristi della Prima repubblica – riconosce con molta onestà – erano più corposi perché abbeverati a quella che forse è stata la fonte più ricca del centrismo ideologico, il cattolicesimo democratico”. Questo è il punto. Dietro la politica di centro della Dc c’era una cultura di governo e un criterio direttivo, operava dunque una visione strategica, tanto da far dire a De Gasperi che il suo era un partito di centro in cammino verso sinistra. Non era un agglomerato definito per esclusione – né di sinistra e né di destra – votato pertanto a un tipo di equilibrismo che aveva per obiettivo la semplice conservazione del potere.

 

Stare al centro voleva dire proporre una “terza via” tra collettivismo e capitalismo, dando alla lotta contro il comunismo una curvatura fortemente democratica e alla pregiudiziale antifascista un carattere fondativo dell’identità  di partito. Non solo Moro ma lo stesso Fanfani, magari con un taglio volontaristico eccessivo, propugnava la funzione di un centro dinamico, capace di rispondere alla domanda di giustizia che nasce e s’impone con l’evoluzione economica e civile della società. Tant’è vero che la storia più interessante e dunque più vera della Dc sta nella ricerca e costruzione di un progresso a dimensione umana, dove l’interclassismo costituiva la formula aideologica dell’alleanza tra ceti medi e classi popolari.

 

Tuttavia, Nadia Urbinati sostiene maliziosamente che il fulcro della politica democristiana s’identificava con l’assicurazione purchessia della governabilità, senza troppi scrupoli, cosicché “quando si trattava di scegliere si preferiva la destra, come succede nella Francia del secondo Emmanuel Macron”. Un’affermazione, questa, poco convincente, essendo il passaggio dal centrismo al centro-sinistra, e poi dal centro-sinistra alla solidarietà nazionale, finache al pentapartito del duello Craxi-De Mita, l’evidente conferma storica di come la proiezione in avanti, nel confronto serrato con la sinistra di governo e di opposizione, fosse l’esplicito riconoscimento della inapplicabilità, in seno al partito dei cattolici democratici, di una preferenza conservatrice di destra. Anzi, secondo il giudizio severo di Del Noce, la pecca principale della Dc va rintracciata all’opposto nel suo progressivo cedimento alla egemonia culturale della sinistra. Da qui, secondo tale accusa, la secolarizzazione e con essa l’avvento della società permissiva, di cui l’aborto, tornato a dividere l’opinione pubblica mondiale dopo la sentenza della Suprema Corte di Washington, rappresenta emblematicamente uno dei frutti più avvelenati.

 

Ebbene, quando proprio sul tema delicato dell’aborto Mons. Paglia invita a un dialogo civile, allo scopo di “ragionare insieme” sulle prospettive legate alla migliore applicazione della legge 194, non restituisce dignità a quel modo di pensare e agire che in fondo ci permette di rintracciare il “senso del centro” come strumento di mitigazione dei radicalismi e degli ideologismi, nonché di sana provocazione per spostare equilibri e generare convergenze? Dunque, non è perlomeno più complessa la materia di questo centro che invero i Popolari hanno tenuto a valorizzare dopo il ‘94, arricchendolo di contenuti e rivestendolo di coerenza, così da fornire un lucignolo di speranza nella lunga notte della diaspora democristiana? Sono domande che non sembrano abusive. Adesso quel che conta, però, non è tradurre obbligatoriamente tutto ciò in un nuovo partito di centro, anche a dispetto delle difficoltà oggettive, ma di asseverare la cultura del centro d’ispirazione popolare come anima – non la sola – di una nuova proposta riformatrice, inclusiva e plurale, rispettosa delle identità.

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