Nei Balcani scatta ancora una volta un pericoloso braccio di ferro

Le tensioni tra Serbia e Kosovo sono di una delicatezza estrema. Non è un caso se UE, NATO, USA hanno esortato le parti a riattivare un tavolo di dialogo.

In questo ultimo anno si è sentito spesso dire, anche da tribune importanti e qualificate, che con la sua “operazione speciale” contro l’Ucraina Putin ha riportato la guerra in Europa. Vero. Ma non è la prima volta che accade, dalla fine del secondo conflitto mondiale. La guerra era già tornata nel vecchio continente, sui territori della ex Jugoslavia. 

Una ragione in più per monitorare con attenzione la crescente tensione fra Serbia e Kosovo, che ha avuto un climax lo scorso 29 maggio con gli scontri avvenuti nel corso di una manifestazione di protesta a Zvecan (una delle quattro cittadine kosovare a maggioranza serba) contro l’elezione e l’insediamento in municipio di un sindaco di etnia albanese. Incidenti che hanno coinvolto i militari della Kosovo Force (KFOR) di stanza in quei luoghi, con 30 feriti (di cui 11 alpini italiani).

I Balcani restano una regione complicata politicamente, per ragioni storiche ed etniche originatesi nei secoli. E anche adesso che l’Unione Europea sta lavorando per portare al suo interno gli Stati ivi insediati che ancora non ne fanno parte la situazione periodicamente rischia di farsi esplosiva. 

La penultima crisi serbo-kosovara data la scorsa estate, quando la c,d. “guerra delle targhe” aveva infiammato gli animi (Belgrado non voleva più sul proprio territorio auto con targa kosovara). Un contenzioso alquanto pretestuoso poi risolto con un compromesso. Ma la ragione di fondo della perenne tensione risiede nel mancato riconoscimento dell’indipendenza kosovara (proclamata unilateralmente nel 2008) da parte della Serbia, per la quale il Kosovo resta un proprio territorio. Una posizione sostenuta da Russia e Cina: la cosa, naturalmente, non è di poco conto. 

In un articolo dello scorso agosto fra l’altro scrivevo su questo giornale: “la zona settentrionale del paese (il Kosovo) è abitata da una popolazione in maggioranza serba. Che Belgrado vuole tutelare in quanto – a suo dire – discriminata dalle autorità kosovare. Speriamo un giorno di non dover imparare i nomi dei comuni di quest’area geografica, perché le similitudini col Donbass sono invero diverse”. Quel giorno invece è arrivato ed eccoli, i nomi, che abbiamo conosciuto in occasione dell’ultima crisi: Zvecan, Zubin Potok, Leposavic, Mitrovica Nord. Qui lo scorso 23 aprile si è votato per le amministrative e solo il 4% dei risiedenti si è recato alle urne, in quanto la maggioranza serba ha boicottato la consultazione elettorale. Le manifestazioni erano appunto contro l’esito di queste elezioni così poco partecipate. 

Pristina ha imposto l’insediamento dei sindaci così eletti e non pare affatto disponibile a farli decadere, anche se essi dovranno operare in un contesto decisamente ostile. Per contro il leader nazionalista serbo Alexander Vucic non ha perso l’occasione di attaccare direttamente il premier kosovaro Albin Kurti, ritenuto personalmente responsabile degli incidenti. Ottenendo lo scontato sostegno del Cremlino, che avrà senz’altro notato con piacere il fallimento de facto del “piano europeo in 11 punti” ideato da Bruxelles per trovare un compromesso fra i due contendenti (individuato in uno statuto speciale per le quattro città in parola).

La questione è di delicatezza estrema, essendo la Serbia candidata aderente UE e al tempo stesso assai influenzata dalla Russia per diverse ragioni, in primis storiche e religiose. Un legame che le ricorrenti ondate nazionaliste che percorrono il paese indubbiamente rinsaldano. Non è un caso se Ue, Nato, Usa hanno in vario modo nei giorni scorsi esortato le parti a stemperare i toni troppo accesi e a riattivare un tavolo di dialogo. La preoccupazione che traspare da queste richieste è purtroppo giustificata.