“Non lasceremo indietro nessuno”: le ultime parole famose del Presidente del Consiglio , Avvocato difensore di tutti gli italiani .
Ma dopo l’ultimo DPCM e il successivo decreto “Ristori”, che vuole compensare le perdite economiche dei lavoratori che hanno chiuso le attività a motivo dell’emergenza sanitaria e dei provvedimenti di lockdown colorati e a zone del Paese, la questione dei cd. lavoratori fragili resta irrisolta.
Perché nessuno ci ha pensato? Se ne è parlato in Consiglio dei Ministri? E – domanda impertinente ma estremamente pertinente… “dove sono finiti i Sindacati?
Qualche flebile vagito si era levato a difesa di questa categoria di lavoratori del settore pubblico e privato che – dopo l’espunzione dal Decreto Agosto (o Decreto Cura Italia) dell’art. 26 – comma 2 – si trovano in questa singolarissima situazione: non possono lavorare in quanto certificati dall’autorità sanitaria come inidonei alla funzione “fino al termine dello stato di emergenza decretato” e non sempre possono riciclarsi nello smart working: quale lavoro potrebbe fare a domicilio una operatrice scolastica (leggasi bidella)? Le pulizie di casa? E un postino? Scrivere le lettere a Babbo Natale? Un operaio metalmeccanico? Fare cavatappi al tornio?
Parliamo di lavoratori chemioterapici, immunodepressi, affetti da patologie croniche che li sovraespongono al rischio di contrarre il Covid-19, anche perchè quasi sempre portatori di invalidità importanti e fruitori della legge 104/92 sulle disabilità per i quali fino al 15 ottobre u.s era possibile beneficiare della tutela sanitaria di collocamento in esonero d’ufficio, essendo la loro patologia equiparata al ricovero ospedaliero.
Dopo l’annullamento di questa protezione giuridica i lavoratori possono chiedere di essere utilizzati in compiti diversi ma sempre in ambienti lavorativi esposti al rischio del contagio e per lo svolgimento di mansioni estranee al proprio profilo professionale, (a volte non accessibili ai portatori di disabilità, – ad es. uso del PC o di macchinari, sollevamento di pesi, la stessa tolleranza ai presidi tipo mascherine che rendono difficoltoso il respiro se indossate continuativamente in ambiente chiuso ecc..) spesso con orario di lavoro superiore a quello contrattuale.
Oppure – in alternativa – “di mettersi in congedo per malattia”, nell’ambito del periodo di comporto, il che significa di subire decurtazioni dallo stipendio fino ad azzerarlo, in concomitanza con il protrarsi dello stato di emergenza che impedisce loro di svolgere il proprio abituale lavoro.
Molti medici si domandano perché dovrebbero certificare una malattia che non esiste: nel senso che quella per la quale i lavoratori sono definiti a rischio e “fragili” è già nota e consentiva finora di svolgere la propria ordinaria attività senza ricorrere necessariamente al congedo per salute, fatti salvi i gg di assenza per cure specifiche (chemioterapie, somministrazione di specifici farmaci per l’immunodepressione, a volte salva-vita ecc).
Costringerli o invitarli a “mettersi in malattia” crea una difficoltà oggettiva al medico curante che deve certificare una patologia diversa, di fatto non esistente.
Non è infatti la loro immunodepressione che li rende ammalati al punto da chiedere congedo per salute, quanto il fatto di essere sovresposti al rischio contagio a motivo della loro certificata fragilità.
Si pensava che il tam tam di lettere, esposti, segnalazioni, perorazioni ecc. facesse breccia nel provvedimento che adotta misure compensative al disagio di chi è impedito al lavoro dal Covid19.
I lavoratori fragili dovrebbero rientrare ope legis nella pletora dei beneficiari poiché è l’ente, l’azienda o l’amministrazione stessa di appartenenza che attraverso il SSN li definisce “inidonei a svolgere la propria funzione fino al termine dello stato di emergenza”.
Ci sono situazioni assai gravi che dovrebbero indulgere il Governo ad un ripensamento, reintroducendo l’art. 26 comma 2 in vigore fino al 15 ottobre e poi cancellato (ci si chiede perchè?). Speriamo che qualcuno provveda.