NON ESISTE UNA TERZA VIA: SE IL PD NON VUOLE CEDERE AL POPULISMO, DEVE APRIRE IL DIALOGO CON IL TERZO POLO.

In definitiva, l’alternativa per il Pd è semplice, anche se dura: o si scioglie nel calderone del populismo, sia pure ingentilito dall’eleganza di Conte, o si rinsalda nel riformismo attraverso un chiarimento di fondo con Calenda e Renzi.

 

Giuseppe Fioroni

 

L’insoddisfazione per l’esito elettorale non basta a spiegare la concitazione del dibattito che si è aperto nel gruppo dirigente del Pd. O forse, più che di concitazione, dovremmo parlare di vistosa consapevolezza della crisi che investe, dopo il voto del 25 settembre, l’esistenza stessa del partito. Non a caso, sull’onda di un’emozione fatta di desiderio e revanscismo, s’è pure affacciato l’invito a sciogliere il Pd per ricreare un soggetto più ampio e inclusivo, vagheggiando altresì un parallelo processo di rigenerazione dei Cinque Stelle. Dunque, le insegne del Nazareno dovrebbero spegnersi perché, a giudizio di tali liquidatori, saremmo ai titoli di coda di una storia improseguibile lungo i sentieri che furono tracciati all’atto di fondazione del partito, nell’ormai lontano 2007.

Al netto della suggestione mediatica, l’enfasi della proposta di scioglimento nasconde un inganno. Distrugge infatti la ragione che fu identificata all’origine del processo di unificazione tra Ds e Margherita (senza qui dedicare attenzione alla fragilità di quella che poi fu definita una fusione a freddo o un amalgama riuscito male). In realtà, usciti a pezzi dalla esperienza dell’Unione, con il secondo governo Prodi messo alle corde dall’irresponsabile condotta della sinistra antagonista, emerse la convinzione che solo un soggetto che unisse le diverse tradizioni del riformismo italiano poteva ambire a fronteggiare la destra, lasciando ai margini, come opzione residuale e non vincolante, il rapporto con Rifondazione comunista. Un grande partito riformista – questa era la dottrina – doveva tenere ferma la separazione dal fatuo intransigentismo di sinistra.

Oggi, con l’apertura del vagheggiato processo costituente a sinistra, si ribalterebbe la prospettiva originaria: un nuovo aggregato, frutto del rimescolamento di carte tra Pd e M5S, finirebbe per presentarsi come luogo d’incontro delle culture riformatrici radicali, avendo perciò l’obiettivo di riplasmare il populismo in funzione di una politica più aderente alle aspettative genuinamente popolari. In qualche modo, verrebbe trapiantato in Italia l’esperimento di Mélenchon in Francia, scontando con ciò la residualità della componente propriamente riformista (l’esempio dei socialisti d’Oltralpe insegna). Tutto il contrario, insomma, di quello che fu lo scenario che portò alla nascita del “partito unico dei riformisti”.

È diversa l’analisi di Filippo Andreatta, e dunque diverse anche le sue conclusioni. Ferma restando la necessità di un ricambio di classe dirigente, per liberare il Pd dalla cappa del compromesso permanente tra logore oligarchie di potere, al centro come in periferia; e ferma restando anche la volontà di rimettere a lustro, con una energia che nel tempo si è persa, il complesso delle ragioni del riformismo, oltretutto per il cambiamento di fase a seguito della pandemia e della guerra; ecco, sia pure incidentalmente nell’intervista concessa ieri al Corriere della Sera, Andreatta indica con intelligenza la strada del rilancio dell’autentica politica riformatrice che fu quindici anni orsono alla base della bella avventura di Veltroni. In sostanza, egli rimette di nuovo al centro il netto rifiuto di una deriva che cede oggi al populismo come ieri cedeva allo spirito e alla prassi dell’antagonismo di sinistra. È evidente, allora, che la missione diretta a “salvare il Pd” è destinata a giocarsi, vuoi o non vuoi, sul terreno di una dialettica positiva con il Terzo Polo.

Queste sono le alternative: o sciogliersi nel calderone del populismo, sia pure ingentilito dall’eleganza di Conte, o rinsaldarsi nel riformismo attraverso un chiarimento di fondo con Calenda e Renzi. Immaginare che esista una terza via, e cioè un percorso che ridisegni il cosiddetto campo largo dove ripristinare la perduta centralità del Pd, è come sognare una fuga dalla realtà, voltando le spalle all’inclemenza dell’esito elettorale, ai dati inoppugnabili della sconfitta, ai nuovi rapporti di forza. È un’illusione, forse alimentata dal bisogno di procrastinare le scelte. E tuttavia, a questo punto, non scegliere avrebbe il significato di un salvacondotto fittizio essendo né più né meno che la debole copertura all’istinto di autoconservazione di un gruppo dirigente retrocesso dal voto a simulacro di una dissipazione storica. Nell’immobilismo verrebbe cancellata la scommessa che scaldò il cuore del popolo dei democratici e dei riformisti. Sotto questo profilo la novità che serve al Pd deve essere risolutiva: chiara nelle forme e precisa nei contenuti.