Non hanno tutti i torti Fioroni e D’Ubaldo quando vedono “…scemare” il ruolo dei riformisti all’interno del Pd (ne hanno scritto qui). E ciò anche a causa delle scelte radicali della Schlein.
Ma occorre andare oltre. Anche se il tema è da tempo sotto osservazione, bisogna dirlo con chiarezza: da anni manca nel nostro Paese una voce forte, unitaria, laica e riformista come fu nel secolo scorso quella del cattolicesimo democratico e popolare, unito nella storica Democrazia Cristiana.
Sui media prevale oggi solo la voce delle polemiche quotidiane – spesso offensive – tra leader e partiti, che continuiamo caparbiamente a definire “di destra” o “di sinistra”, senza mai chiarire i contenuti reali.
La lezione sturziana e i fondamentali della Dc
È vero: la Dc si è sciolta. E si è divisa nelle due anime che Sturzo già nel 1919 aveva intuito – una progressista e democratica, l’altra conservatrice e clericale – fino a frantumarsi.
Ma i suoi fondamentali, la sua etica della politica con la pace al centro, l’attenzione al bene comune e alle diseguaglianze, restano di un’attualità sorprendente. Basti ricordare che, secondo l’ultimo Rapporto Istat, “quasi un quarto della popolazione italiana – il 23,1% – è a rischio povertà o esclusione sociale”.
Quella tradizione ha alimentato esperienze coraggiose come le “convergenze parallele” o i “compromessi storici”, che scandalizzarono allora una parte dell’opinione pubblica, non solo cattolica. Eppure, contribuirono a costruire un sano bipolarismo e a dare forma a una “democrazia dell’alternanza” che Moro e De Mita seguirono con lucidità e tenacia.
Il pluralismo tradito e la sfida del ricomporsi
Oggi si assiste invece a una proliferazione di partiti e partitini personali, che illudono ma svuotano il pluralismo autentico. Serve un bipolarismo vero, che favorisca sintesi e responsabilità.
Le sfide del nostro tempo – dalle crisi geopolitiche alla società multiculturale – richiedono un salto di qualità. Bisogna trovarsi tutti “sulla stessa barca”, come dice papa Francesco, evitando però il pensiero unico.
Il richiamo a una cultura cattolica capace di costruire ponti e non muri non è nuovo: risale agli anni di Moro e De Mita, e si manifestava con più vigore nel dialogo amministrativo locale. Basti guardare alla rete civica triestina.
Oggi, nel tempo delle “democrazie illiberali” e delle leadership solitarie – figlie di modelli presidenziali concentrati – si fa ancora più urgente tornare alla tradizione parlamentare. Va ricordato che l’elezione diretta del presidente fu proposta per la prima volta da Giorgio Almirante, poi ripresa da Giorgia Meloni con un “premierato” a modo suo.
Un appello da raccogliere: ritrovarsi
Hanno ragione Fioroni e D’Ubaldo nel rivolgersi a quel che resta del cattolicesimo politico riformista, invitando a ritrovarsi, parlarsi, confrontarsi sul “cambiamento d’epoca” – non sull’“epoca dei cambiamenti” – come ammonisce Francesco.
Un cattolicesimo democratico, popolare e progressista che, da bipolarista, non scandalizzerebbe nemmeno se decidesse di ricompattarsi in un solo partito. Anche fosse di centro.
Voglio solo ricordare perché.
Eravamo nel lontano aprile del 1979, appena un anno dopo il tragico assassinio di Aldo Moro, quando il gesuita Padre Bartolomeo Sorge, innamorato del prepolitico e prepartitico, dell’educazione e formazione alla politica, avvertendo le trasformazioni sociali e culturali dietro l’angolo, assieme alla crisi non solo della Chiesa ma anche del cattolicesimo politico, scrisse un libro profetico: La ricomposizione dell’area cattolica in Italia.
Questa riflessione e analisi furono fatte, benché la Dc – appena due mesi dopo – risultò ancora il partito più votato in Italia. Con una partecipazione al voto stratosferica del 91%, vinse le elezioni col 38% dei voti, seguita dal Pci col 30%.
La preoccupazione di Padre Sorge
In ogni caso, Padre Sorge non fu contento di quel risultato. E siccome, secondo lui, la Dc stava invecchiando col rischio di rimuovere i valori cristiani che aveva difeso, e mancava un ricambio generazionale, iniziò a progettare una Scuola di formazione all’impegno sociale e politico dei cristiani, che fondò a Palermo alcuni anni dopo assieme a padre Pedro Arrupe, all’epoca Superiore Generale dei Gesuiti – mal visto da tre papi – e oggi in cammino verso la beatificazione. Una scuola che si diffuse poi in moltissime realtà diocesane, e che esiste ancora oggi.
E la classe dirigente?
Oggi, la crisi della democrazia è soprattutto crisi di classe dirigente. Domanda: ci può essere allora d’aiuto questo suggerimento di “ricomposizione”?
Oppure, di fronte al dilagare dei social, soffermarsi sui giovani e sulla loro formazione prepolitica è solo una perdita di tempo utopica?
Conviene forse continuare a lasciare tutto nelle mani di ultrasessantenni, se non oltre, solo per custodire il ricordo di un’area culturale e politica così nobile quanto necessaria ai nostri giorni?