Oltre lo Stato etnico: riflessioni sul futuro della nazione ebraica.

Non c’è un’alternativa per la convivenza e una speranza di pace in Medio Oriente? Sì, ma passano attraverso una trasformazione di Israele in una vera democrazia e una conversione religiosa.

Per comprendere tutte le dinamiche che concorrono a determinare la tragedia in corso a Gaza, bisogna ricordare che lo Stato di Israele non è uno Stato come tutti gli altri, sicché i suoi atti e le loro motivazioni non sono paragonabili a quelli di qualsiasi altro Stato; di conseguenza i discorsi e i giudizi politici che li concernono sono spesso carenti, non informativi e privi di rapporto con la realtà effettuale.

La differenza consiste nel fatto che lo Stato di Israele è per origine e per scelta uno Stato etnico. Quanto all’origine, com’è noto essa sta nello scempio della Shoà e nello sgomento che ne è ricaduto sull’intero popolo ebreo e sulla stessa comunità internazionale che attraverso l’ONU ne ha stabilito la fondazione. Quanto alla scelta essa sta in una serie di atti successivi, il primo dei quali, come ha narrato uno dei protagonisti, Jacob Taubes, fu  nel 1947 la decisione di non procedere alla stesura di una Costituzione, perché la legge fondamentale era da considerarsi la Legge biblica, e al di là delle  norme laiche che lo Stato si sarebbe dato, gli istituti fondamentali come il matrimonio, il ripudio, la proprietà, dovevano essere forgiati dalla legge halachica, che è una derivazione normativa della Torah ebraica. Si può citare poi un tentativo del governo Netaniahu nel 2010  di inserire nella legge sulla cittadinanza una norma che obbligava ogni nuovo cittadino israeliano  a prestare giuramento a Israele “Stato ebraico e democratico”; facendo così dell’ebraicità un carattere  dello Stato tutelato da un giuramento; e si può ricordare come tutto ciò sia confluito il 19 luglio 2018. (primo ministro Netanyahu) in una legge di rango costituzionale, approvata di misura dalla Knesset con 62 voti favorevoli e 55 contrari, in cui lo Stato di Israele era definito come lo “Stato nazione del Popolo Ebraico”, e si sanciva che  “La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato”, che “Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione”  e che “Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivamente per il popolo ebraico”.

Questa immedesimazione di religione e Stato non è stata senza conseguenze militari e politiche: nel 2008, per una precedente operazione militare speciale contro Gaza, cosiddetta “Piombo fuso”, si dovette chiedere l’autorizzazione dei rabbini per cominciarla nel giorno di sabato, il 27 dicembre; e nel maggio 2010 per l’attacco degli incursori israeliani alla flottiglia pacifista (10 morti),  che per portarvi aiuti umanitari voleva rompere il blocco di Gaza da cui Israele si era ritirato, la legittimazione per l’abbordaggio in acque internazionali  fu che quella era comunque terra d’Israele.

Nel momento di una crisi suprema come quella attuale questa identificazione tra ebraismo e Stato produce tre tragedie per tutti e tre angosce per noi. La prima è quella del reciproco terrorismo di Gaza, che assimila la violenza della jihad islamica di Hamas a quella dello Tsahal israeliano e minaccia la definitiva espulsione dei palestinesi. La seconda è quella dello Stato di Israele che così spezza la società israeliana, fino alle piazze in rivolta e al “j’accuse” degli ostaggi e delle loro famiglie, perde la solidarietà di gran parte del mondo, irrita perfino gli Stati Uniti e si espone a una sfida mortale con i suoi nemici da cui potrebbe uscire dilaniato. La terza è quella dell’ebraismo, che si trova schiacciato sull’ermeneutica fondamentalista di una retribuzione incondizionata e violenta voluta dal Dio dell’Alleanza, che altera la Bibbia e rilancia l’antisemitismo perverso rimasto latente dopo il nazismo, come in Francia e perfino in Italia e in molti altri Paesi.

Si capisce allora perché, mentre è sacrosanto il diritto del popolo ebreo di difendersi e di essere difeso contro i demoni della distruzione, una gran parte delle guide religiose e dei sapienti d’Israele era contraria a una forzatura politica del messianismo e alla istituzione di uno Stato; si temeva una catastrofe e venivano invocati i “tre giuramenti” che secondo il Midrash e il Talmud Dio avrebbe fatto fare al popolo ebreo tra cui quello di “non salire sul muro” dell’esilio e di “non forzare la fine” (se ne trova la documentazione completa nell’opera di Aviezer Ravitzky, premio Israele per la ricerca filosofica, “La fine svelata e lo Stato degli Ebrei”).  Obiezione spazzata via dalla Shoà.

Dunque non c’è un’alternativa per la convivenza e una speranza di pace in Medio Oriente? Sì, ci sono, e passano attraverso una trasformazione dello Stato in una vera democrazia del Medio Oriente e una conversione religiosa: nella stessa tradizione ebraica c’è una lettura del giudaismo realizzato che sarebbe una meraviglia per il mondo intero.

Un simile cambiamento si è già avuto del resto in molti altri Stati e religioni. A cominciare dal nostro “regime di cristianità”.

 

[Il testo è tratto dal profilo Fb dell’autore. Titolo originale: Per un nuovo Israele]