L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si aprirà domani a New York si preannuncia incandescente. La questione del riconoscimento dello Stato di Palestina vi terrà banco e occuperà le cronache per tutto il mese. Il confronto su quel tema alimenterà altresì il dibattito su cosa debba essere l’Onu in questo XXI° secolo, a 80 anni dalla sua nascita, un anniversario che verrà celebrato adeguatamente ma che rivela, al tempo medesimo, tutta la sua attuale debolezza, per non dire inconsistenza.
Dalle origini al diritto di veto
Sorta alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Organizzazione, fortemente voluta dal Presidente americano Franklin D. Roosevelt, riprendeva lo slancio idealistico della precedente e non fortunata Società delle Nazioni ideata un quarto di secolo prima dal suo predecessore Woodrow Wilson ma cercava di fondarla su una base internazionalista più solida. Tale solidità sarebbe stata garantita da un club di potenze che attraverso lo strumento del “diritto di veto” ne avrebbero guidato il percorso: massimo impegno nel campo della cooperazione e del diritto internazionale, costituzione di apposite agenzie dedite allo scopo ma limitazione politica a eventuali tentativi di aggiramento dei suoi scopi fondativi se non condivisi da tutti e pertanto inibibili tramite, appunto, il veto.
Un potere del quale potevano (e possono tuttora) disporre le cinque nazioni uscite vincitrici dal conflitto mondiale: Stati Uniti, Unione Sovietica oggi Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina, costituenti il Consiglio di Sicurezza in modo permanente.
Le promesse mancate
Come inevitabilmente accade con uno strumento quale il diritto di veto esso fin da subito funzionò “in negativo”, utile per bloccare ogni possibile risoluzione non condivisa anche da un solo membro del Club e invece inadatto, allo stato dei fatti, ad imprimere una qualsiasi svolta “in positivo” nella direzione di quello che doveva essere il suo obiettivo primario, ovverosia la prevenzione delle guerre e il progredire planetario dei diritti umani.
Fin da subito il mondo si divise secondo la logica sottoscritta a Yalta e la susseguente Guerra Fredda fra Est e Ovest non aiutò di certo lo sviluppo delle lodevoli ambizioni indicate dalla Carta delle Nazioni Unite, firmata il 26 giugno 1945, né della stessa Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata dall’Assemblea Generale il 10 dicembre 1948 ma non resa vincolante per gli Stati membri (a precoce testimonianza di un impianto teorico generale che poi non funzionò, o funzionò poco, nella pratica).
Non solo. Veniva di fatto dimenticato, o comunque emarginato, il Sud del mondo, ai tempi come relegato in una serie inferiore, poi identificata dalla pubblicistica politica con la vagamente razzistica locuzione “Paesi in via di sviluppo”.
La decolonizzazione e i limiti delle missioni di pace
Ma negli anni sessanta la decolonizzazione europea fece sorgere o rinascere nuovi Stati in Africa e in Asia, e la loro adesione all’Onu cominciò a modificarne significativamente la composizione assembleare. Inoltre, la frequenza con la quale si accendevano guerre e conflitti in varie parti del globo disattendeva la missione pacifista dell’Organizzazione, indebolendola.
Le “missioni di pace”, di interposizione fra i nemici, attuate dai Caschi Blu si moltiplicarono nel tempo, certificando però il fallimento di fatto dello spirito universalistico e dell’afflato umanista delle Nazioni Unite. Che non riescono, ancora oggi, a impedire guerre, scontri, massacri, carestie indotte: un elenco di insuccessi che ne hanno lentamente ma costantemente eroso capacità, potenzialità, autorità. Sino ad una quasi sostanziale irrilevanza.
Gli Stati Uniti in ritirata, la Cina alla finestra
In qualche modo auspicata e favorita dagli Stati Uniti, che ne furono il motore propulsivo iniziale e che invece già con la presidenza Bush jr. e poi in maniera accentuata con la prima di Trump per non dire ora con la seconda ne hanno limitata l’operatività attraverso una sistematica riduzione dei fondi ad esse dedicati.
Lasciando però, così facendo, uno spazio di manovra assai ampio alla Cina, che punta ad ampliare – con iniziative quali BRICS e SCO – la propria sfera di influenza planetaria e dunque la propria base di alleanze nell’Assemblea Generale del Palazzo di Vetro.
Lo si vedrà in queste settimane e l’opportunità le verrà fornita dal dibattito sulla Palestina, nel quale gli USA rischiano di trovarsi isolati nella difesa delle posizioni di Israele, a sua volta in procinto d’essere emarginato da gran parte della comunità internazionale: risultato disastroso di una politica disastrosa oltre che criminale attuata dal suo attuale governo guidato da fanatici.
Una vicenda, quella di Gaza, che divide l’Occidente dimostrandone agli occhi del resto del mondo la sua vulnerabilità attuale (e ancor più quella prospettica).
Una nuova fase?
E così potrebbe aprirsi (l’occasione sarà la scelta del successore dell’ineffabile Antonio Guterres, segretario generale in scadenza il prossimo anno) una nuova fase nella storia dell’Organizzazione, nella quale sarà la Cina a provarne il rilancio a fronte del ritiro progressivo degli Stati Uniti. Ma alla sua maniera, che privilegia gli aspetti commerciali e nega quelli legati ai diritti umani, che antepone gli interessi degli stati sovrani a quelli universali. Un modello esattamente agli antipodi di quello che aveva ispirato la nascita dell’Onu.