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venerdì, 9 Maggio, 2025
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Pace, Europa e ordine mondiale: ripartire dall’humus della politica d’ispirazione cristiana

Una voce profetica fu quella di Luigi Sturzo. Quasi un secolo fa, esule a Londra, scrisse un saggio sulla possibilità - o meglio la necessità - di superare per sempre la logica della guerra.

La Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 è l’atto di nascita dell’Europa unita, il sogno di una generazione che voleva estirpare la mala pianta della guerra. È bene ricordarlo, specie oggi, in tempi di disillusione e ritorni pericolosi al linguaggio della forza, con la guerra combattuta nel lembo più orientale dell’Europa. In quella storica Dichiarazione del ministro degli Esteri francese non si parlava dell’Europa come entità astratta o ideale, ma di una realtà sovranazionale orientata alla pace che, si legge proprio in apertura,  non avrebbe potuto “essere salvaguardata senza sforzi creativi all’altezza dei pericoli che la minacciano”. L’unità europea nasce con l’intento di stabilizzare i rapporti interstatali, storicamente difficili, in particolare tra Francia e Germania.

In questo quadro, dire che l’Unione Europea ha garantito oltre cinquant’anni di pace non significa alludere a un miracolo, come tutti i miracoli inatteso e sorprendente, bensì celebrare il risultato di un preciso disegno per il quale le classi dirigenti dell’epoca, specialmente quelle di matrice democratico cristiana, si sono spese con generosità e intelligenza. Dopo due guerre mondiali devastanti, l’Europa ha risposto con un’architettura istituzionale fondata sul principio dell’equilibrio e del dialogo. Partendo dall’Autorità preposta allo sfruttamento del carbone e dell’acciaio (CECA), la pace è diventata una condizione effettiva di operosa convivenza e progresso civile, non solo una parola da pronunciare nei discorsi ufficiali.

Una voce profetica, in questo senso, fu quella di Luigi Sturzo. Quasi un secolo fa, esule a Londra, scrisse un saggio in cui sviluppava una riflessione penetrante sulla possibilità – o meglio la necessità – di superare per sempre la logica della guerra come forma di regolazione dei conflitti tra le nazioni. Non si trattava di un vacuo proposito pacifista: Sturzo, uomo concreto e acuto osservatore della realtà, proponeva sul finire degli anni ‘20 una riforma dell’ordinamento politico mondiale. Anticipava così, all’incirca un quarto di secolo prima, il Maritain de “L’Uomo e lo Stato” (1951). A giudizio del prete calatino, la pace non poteva essere affidata alle buone intenzioni circolanti in un determinato contesto e legate alle alterne volontà degli uomini di governo. Quel che serviva era una visione più profonda, capace cioè di prevenire i conflitti attraverso istituzioni condivise, con il respiro di una legislazione sovranazionale.

Ebbene, da quale premessa partiva il fondatore del Partito popolare? “Nello stato tutti i cittadini – notava argutamente – sono disarmati e solo il potere pubblico è armato; nella comunità internazionale tutti gli stati sono armati e solo l’autorità internazionale è disarmata” (La comunità internazionale e il diritto di guerra, 1928). Per questo, volendo immaginare un futuro senza guerra, occorreva rovesciare la medaglia e prevedere l’inversione dei rapporti: un’autorità sovranazionale dotata del diritto della forza, in grado perciò d’intervenire in qualità di “polizia internazionale” ai fini di prevenzione e controllo dei conflitti tra gli stati (finalmente disarmati).

E Sturzo vedeva nell’Europa lo stadio più immediato di questo straordinario e gigantesco riordino dell’assetto mondiale delle relezioni tra gli stati. “Il proposito di rifare l’unità europea su basi di giustizia e pace, con una organizzazione forte e permanente, deve essere superiore agli egoismi che hanno tradito l’Europa degli ultimi vent’anni. Nel 1914 si disse che si combatteva per l’ultima guerra: oggi si deve dire che si combatte per la federazione europea. Il problema internazionale dell’Europa è la posta di questa guerra: o la federazione o l’egemonia del nazionalismo alleato al boscevismo” (L’Italia e la guerra, “Il Mondo”, New York, dicembre 1939). La sua idea, maturata all’indomani della Grande guerra, sarebbe  rimbalzata nel fremito di apprensione e turbamento allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Non si trattò quindi di un processo improvvisato. Quando la Società delle Nazioni fallì, non si disse: “Basta, abbandoniamo il progetto, non serve a nulla insistere”. Al contrario, si raccolsero i frammenti e si rimise a lustro la struttura appena demolita, fino alla costituzione delle Nazioni Unite. In sostanza, il concetto di un ordine mondiale fondato sulla solidarietà e la coesione riuscì a fare breccia nel confronto tra le potenze vincitrici. E ancora oggi, per quanto insoddisfacente, resta la piattaforma su cui poggiare per l’edificazione di un valido modello di cooperazione tra gli stati.

ILpatrimonio politico e culturale dell’Europa non può essere archiviato o trattato con sufficienza. Non possiamo accettare che l’Unione sia rappresentata esclusivamente come intralcio e imposizione, ovvero come luogo di pesante regolamentazione. Certo, nessuno nega che le regole possano essere migliorate o perlomeno alleggerite del fardello di inutili complicazioni burocratiche; ma l’Europa sta oltre le sue contraddizioni perché alligna nell’humus di una storia che la rende visibile e forte in quanto espressione politica e istituzionale di incancellabili valori di civiltà.

Oggi questo retaggio va riscoperto. Ecco, il mondo è entrato in una nuova fase caratterizzata dall’incertezza per l’esaurimento della spinta legata alla globalizzazione, fonte di grande espansione economica nei Paesi pià arretrati e di gravi contraccolpi per le società dell’Occidente post-industriale. Riconosciamolo con schiettezza: grazie alla globalizzazione milioni di esseri umani sono usciti dalla miseria e dalla disperazione. Questo va riconosciuto senza negare i limiti e i contrasti, a danno dei paesi ricchi, che ne sono scaturiti.

In ogni caso, non possiamo permetterci di rinchiuderci nei confini identitari. La scelta di fronte a noi è netta: ultilateralismo o multipolarismo? Le due espressioni suonano simili, ma indicano direzioni profondamente diverse. Il multilateralismo richiama un metodo: il dialogo tra Stati, la cooperazione regolata, la responsabilità condivisa. Il multipolarismo, invece, inclina fatalmente alla logica di potenza, dove ognuno protegge il proprio spazio senza un disegno comune.

Serve allora una “globalizzazione buona”, come d’altra parte si è sentito più volte ripetere nei tempi più recenti. Se viene meno tale prospettiva, resta solo la competizione sfrenata, la chiusura nazionalistica, la guerra dei dazi (non la prescrizione della guerra). Dunque, una visione politica ispirata ai valori cristiani deve proporre un orizzonte più alto. La convivenza su basi di reciproca fiducia non sarà possibile senza una “nuovo realismo” della pace, che torni a dare senso al rispetto dei diritti (degli uomini e delle nazioni). La politica, se vuole ritrovare se stessa, deve farsi carico di questo compito impegnativo. Deve tornare perciò alla radici della speranza, per dare motivi di credibilità alla costruzione di una speranza che non sia miraggio o inganno.

 

 

Intervento svolto al convegno su Pace e multilateralismo, promosso dai giovani del Movimento Politico per l’Unità [Roma, Terrazza del Pincio, sabato 12 aprile 2025]