Pd e Centro, il tempo è poco per decidere cosa fare.

Bisogna dire le cose in chiaro, osservandole dal punto di vista dell’elettorato. In fondo sono due, inerenti il Pd e il Centro, e condensano le loro manifeste e parallele insufficienze.

La scelta neo-protestataria del nuovo Pd da un lato, la prevalenza nello schieramento conservatore della Destra di origini missine dall’altro. A congiungere i due punti al vertice del triangolo la legge elettorale maggioritaria, tutrice di un bipolarismo rissoso e affatto incline a ogni mediazione, arte e virtù ripugnate e catalogate sdegnosamente come “democristiane”. 

Un Paese che si radicalizza nello scontro non fa bene a sé stesso e aggrava problemi di per sé già complicati. L’alternanza al potere, che è utile e positiva nella sua funzione di lubrificazione dei meccanismi della democrazia, risulta senz’altro più produttiva se temperata da quel virtuoso confronto con l’opposizione dal quale talvolta possono nascere idee e soluzioni interessanti e innovative. Con beneficio dell’intera comunità nazionale. Ciò senza far venire meno, naturalmente, le differenze fra gli schieramenti e fra i partiti e pure lo scontro duro, quando inevitabile e dunque intorno a questioni di fondo difficilmente componibili. 

Questa visione più moderata della disfida politica, ma non per questo meno audace (anzi forse più coraggiosa, in quanto ipotizza la possibilità di comuni “assunzioni di responsabilità” quando le condizioni al contorno lo richiedano), è in genere propria di un Centro dinamico e propositivo, quando presente nel sistema politico di un Paese. Sto parlando di un Centro che “prende” posizione, non che si limita a “marcare” una posizione. Il che comporta avere non solo una propria linea politica e proposta programmatica ma anche una indispensabile attitudine a costruire alleanze, necessarie per competere alle elezioni con effettive possibilità di vittoria e dunque alimentate dalla disponibilità a ricercare e conseguire punti realistici e accettabili di mediazione.

Tutto ciò premesso, bisogna riconoscere che – costretto dal vincolo del sistema maggioritario e anzi proprio in ragione di esso – il Pd originario aveva esattamente questo obiettivo che però sussumeva in sé medesimo: era questo il significato della “vocazione maggioritaria” ideata e poi narrata da Walter Veltroni e condivisa da molti di noi, cattolici democratici alla ricerca di uno strumento politico moderno e al contempo non dimentico delle culture politiche del Novecento che hanno costruito la nostra democrazia repubblicana.

Ora però il nuovo Pd emerso dal congresso di quest’anno, con le modalità note, indicative di un partito che tende a seguire un’onda piuttosto che a indicare una via, ha abbandonato la propria idea fondativa per abbracciarne una diversa, significativamente diversa. Ponendo così molti suoi attivisti, ma ancor più molti suoi elettori, nella condizione di dover decidere cosa fare. Restare e continuare a votarlo sia pure condividendo assai poco delle posizioni e soprattutto della posa assunta dalla nuova dirigenza, più che altro in base alla sconsolata valutazione circa l’assenza di una reale alternativa elettorale, visti i deludenti sondaggi relativi alle forze “centriste” oggi offerte sul mercato elettorale. Oppure andarsene, gli iscritti e i simpatizzanti, o non votarlo più, gli elettori.

Il risultato di questa sofferta condizione lo si è visto lo scorso 25 settembre. Che il recente turno amministrativo, oltre a quello regionale in Lazio e Lombardia lo scorso febbraio, si è incaricato di confermare. Con grande gioia della Destra di governo.

Ora, bisogna dire le cose in chiaro. Guardandole dal punto di vista dell’elettorato, che è quello che conta davvero. Perché quello dei professionisti della politica è assai limitativo, essendo palesemente troppo influenzato dalle personali prospettive di carriera. E le cose in chiaro sono due, inerenti il Pd e il Centro. 

Ovvero, per quanto riguarda il primo: al di là della superficialità e indeterminatezza della proposta programmatica sinora esposta dalla nuova dirigenza dem, più che altro intenta a cavalcare ogni possibile protesta, è evidente che la scelta radicale imperniata sui diritti individuali non è in grado di allargare il consenso oltre un certo limite. Del resto, per la gente comune le priorità sono altre ed è su di esse che tara il giudizio sull’offerta partitica. 

Per quanto concerne il secondo è pure evidente che se non sarà in grado di presentare una piattaforma programmatica unitaria imperniata su un minimo comun denominatore strategico, inclusiva del contributo di più culture politiche e infine incarnata da una leadership anche plurale ma compatta e affatto litigiosa esso non avrà alcuna possibilità di successo elettorale, nemmeno con il sistema proporzionale europeo. 

Orbene, partendo da queste due semplici ma dure considerazioni i discorsi inerenti Pd e Centro vanno ora approfonditi. Senza schermature ideologiche. Il tempo è adesso.