In questi giorni d’estate, Roma non è solo città: è soglia. Non solo meta, ma passaggio. I suoi sanpietrini tremano sotto passi giovani, veloci e leggeri, come se il tempo avesse lasciato spazio a un’altra misura, quella della speranza.
Il Giubileo dei Giovani è entrato nel cuore della città come un fiume silenzioso e colorato. Voci che arrivano da tutto il mondo si incrociano nei vicoli del centro, nei cortili delle periferie, nelle navate delle parrocchie. Parlano lingue diverse, ma tutti si riconoscono senza bisogno di traduzioni. Camminano mano nella mano, con gli zaini sulle spalle, i cartellini di riconoscimento al collo, le bandiere dei loro paesi e quelle della pace.
È un popolo in cammino. E non è una metafora.
Roma si è lasciata attraversare. L’ha fatto con una grazia inaspettata, come se ricordasse — nel profondo delle sue pietre — che la città eterna è anche città accogliente, città madre, città che benedice chi parte e chi arriva.
Il tema scelto per il Giubileo del 2025 — “Pellegrini di speranza” — si fa carne in questi giorni. Si incarna nei volti degli adolescenti che ridono, si aiutano, cantano, pregano. Ma soprattutto nel loro modo di stare al mondo: senza paura, con uno sguardo che va oltre il presente. Perché la speranza, in fondo, è questo: credere che qualcosa — o Qualcuno — ci precede nel cammino.
Nel Vangelo, Gesù stesso è un viandante. Cammina sulle strade della Galilea, della Samaria, della Giudea. Non ha una pietra dove posare il capo, ma ovunque va accende la vita. È forse questo il segreto più profondo del pellegrinaggio: mettersi in cammino per scoprire che la meta non è un luogo, ma un incontro. E questi giovani, da ogni angolo del mondo, sono venuti a Roma non solo per vedere, ma per lasciarsi toccare.
In un’epoca segnata da guerre, fratture sociali, disincanto, i giovani giunti a Roma sono una domanda viva. Non portano risposte, ma presenza. Non parlano con slogan, ma con il silenzio di chi si inginocchia, canta, prega. Nella città che ha visto imperatori e papi, martiri e santi, ora sfilano loro, i ragazzi e le ragazze di una nuova Pentecoste. Dove le lingue non dividono, ma uniscono. Dove le differenze non creano distanze, ma stupore.
A colpire non è solo il numero, ma l’anima che si percepisce dietro ogni passo. Non c’è frenesia turistica, né fanatismo religioso. C’è qualcosa di più fragile e profondo: una fede che si affaccia alla vita. Un’allegria che non nasconde la fatica. Un desiderio che non si compra.
“Siete il volto giovane della Chiesa e del mondo. Non lasciatevi rubare la speranza, perché è il dono più rivoluzionario che avete da offrire”, ha detto Papa Leone XIV accogliendo i giovani in Piazza San Pietro. E quella speranza, oggi, cammina per le strade di Roma.
Tor Vergata -dove si celebrerà la Santa Messa conclusiva- sarà il culmine, certo. Ma il Giubileo è già cominciato in ogni incontro, in ogni gesto di cura, in ogni canto improvvisato su un tram. La vera liturgia è nei piccoli dettagli: uno sguardo tra sconosciuti, un abbraccio oltre le differenze, un pasto condiviso all’ombra di una Basilica.
Chiunque viva anche solo un frammento di questo tempo si accorge che non si tratta di un raduno qualsiasi. È un’esplosione silenziosa di futuro. È il linguaggio universale del cuore. È, forse, quel “respiro” che ogni cultura cerca quando si affaccia al mistero.
E mentre il sole tramonta su Roma, con le sue cupole dorate e le sue strade polverose, resta una certezza: la speranza non è un’utopia. Ha un volto. Anzi, milioni di volti. E in questi giorni, passa proprio di qui.