Per la politica dominata dalla comunicazione esiste solo il leader

Oggi si vota per una faccia, per un viso, per un nome sul simbolo del partito: i valori, i programmi, la storia del partito non contano più. Questa è la crisi della democrazia.

Molte cautele sul Premierato. Anche perché, se non soprattutto, i nostri sono giorni in cui la politica-spettacolo, il marketing politico ingannevole, i telegiornali Rai schierati e sotto padroni, assieme alla social-politica digitale e liquida frammentata e orizzontale, finta se non falsa del web, la fanno ormai da padroni sul destino della democrazia rappresentativa. Marco Follini non si sbaglia di molto e scrive che  “(…) è come se si pensasse di riformare lo Stato con l’occhio rivolto ai telegiornali della sera…” (“La Voce del Popolo” del 27 giugno, citato in questo blog).

Quando la coppia Sallusti-Feltri su “il Giornale”, e  Maurizio Belpietro a “Carta Bianca”, denunciano il fatto che Achille Occhetto prima e Massimo D’Alema dopo hanno proposto una riforma sul premierato molto simile a quella della Meloni, non si sbagliano di molto. Dimenticano tuttavia le proposte del Msi nel secondo dopoguerra sul Presidenzialismo. E fanno un grossolano errore su una questione che non valutano per niente. Una questione che tuttavia fa capire quanto la polemica politica e gli attacchi partigiani siano oggi più importanti di una onesta analisi politica, culturale e antropologica a tutto tondo, e del momento storico che attraversa la democrazia. Non solo in italia. 

Trenta o trentacinque anni fa la cosiddetta sinistra (o centrosinistra) propose, dicono, qualcosa di simile al premierato meloniano di stile almirantiano. Ma in quegli anni in Italia c’erano solo 7/8 canali televisivi nazionali circa, si compravano i giornali nelle numerose edicole, si telefonava dalle cabine telefoniche o da casa, si facevano i comizi nelle piazze, si stampavano manifesti da attaccare di notte, e si distribuivano volantini lungo le vie e nei mercati rionali. Le sezioni territoriali di partito e gli iscritti erano numerosi. E le Tribune Politiche della Rai, con tutta la loro onesta e ponderata “par condicio”, la facevano da padroni sulla  comunicazione politica mediatica. 

Sallusti, Feltri e Belpietro dovrebbero allora sapere che al giorno d’oggi le televisioni, grazie al digitale terrestre, sono diventate centinaia, la Rai è tutta nelle mani della coppia Meloni-Salvini, i telefoni sono diventati cellulari e smartphone. E il mondo dei social ha polverizzato la stessa comunicazione politica verticale, assieme a quella orizzontale dei rapporti interpersonali di vicinanza. È avvenuto con le fake news ingannevoli che oggi possono provenire da potenze straniere, con le dirette casalinghe e messaggi dei leader con il proprio tablet, con i messaggi di milioni di follower e influencer vari. 

Storicizzando allora la questione, oggi la “Democrazia del Pubblico”,  il rapporto diretto cioè tra il solitario leader con poco partito alle spalle ma con uno sconfinato spazio mediatico davanti, e il potenziale elettore, come aveva previsto e intuito bene Bernard Manin anni fa, sono diventati legge della comunicazione politica, della propaganda politica e, ahimé, della stessa democrazia politica. A tal punto da creare la crisi del partito democratico e della sua identità, che poi se vogliamo, rappresenta la causa prima della disaffezione ai seggi elettorali e del disinteresse verso la politica. 

Oggi si vota per una faccia, per un viso, per un nome sul simbolo del partito: i valori, i programmi, la storia del partito non contano più. E oggi si va alle urne cambiando voto di volta in volta, richiamati da un bravo comunicatore che con la sua spocchia fa presa sul pubblico, con i suoi vestiti cambiati ogni santo giorno piace, che fa audience con una buona voce,  che cammina velocemente per strada  con un cellulare in mano. E con le sue fisime di comando solitario nascoste. Altro non c’è. O almeno non si vede, dal momento che esiste l’Io, l’Ego, e non il Noi e il Nos. Esiste dunque solo il Premier. Mai un poco di accortezza verso il “deuxième” o il “troisième”, il secondo o il terzo come ho accennato nella nota di qualche giorno fa.