Per una politica umana: la riscoperta del cattolicesimo democratico.

Siamo di fronte a un’effettiva diminuzione del PIL “buono” (come direbbe Draghi) per il 99% della popolazione italiana. Da qui bisogna ripartire per creare le premesse di una nuova politica economica nazionale.

La comunità italiana è profondamente smarrita, meglio angosciata. Da una parte la guerra “parziale” in uno con un crescente clima di odio, dall’altra un profondo dualismo tra la “narrazione” economica dell’ultimo ventennio e la realtà vissuta da decine di milioni di italiani, ha creato un quadro di grave rottura del principio di rappresentanza (democratica) come può evincersi dalla netta caduta dell’esercizio del diritto di voto (alle ultime politiche affluenza alle urne del 64%).

Tralasciando, per ora, gli effetti dei nuovi drammatici scenari geopolitici appare fondamentale indagare il malessere italiano dalla parte del dualismo tra narrazione economica e realtà vissuta dai cittadini.

Il cuore della narrazione economica è rappresentato dall’andamento del PIL nazionale nell’ultimo ventennio pari all’1,8% (equivalente ad una sostanziale stagnazione reale) sapientemente prospettato (TG dopo TG) come l’indice significativo di un andamento positivo dell’economia. Una fake news colossale che, non corrispondendo alla vita reale delle persone, disorienta e allontana dalla politica.

Ma perché si tratta di una fake? Procediamo con ordine. Un PIL reale stagnante non è mai un buon indicatore tranne che sia in atto una profonda modifica strutturale dell’economia come la dismissione di un settore bellico o la conversione di un altro (dalle automobili alle bici). Dunque il PIL reale italiano è già di per sé un indicatore della crisi italiana. E ciò senza considerare tre elementi che nel tempo hanno modificato profondamente il suo stesso “valore”.

Intendiamo riferirci alla “monetizzazione” dei prodotti servizi del PIL, alla sua patologizzazione e all’inedita concentrazione dello stesso (in termini di quota percentuale del reddito e del “patrimonio” detenuto dall’1% della popolazione).

All’inizio del terzo millennio abbiamo assistito ad una accelerazione del processo di monetizzazione, inteso come attribuzione di valore a beni definibili comuni. Si pensi all’esternalizzazione dei servizi familiari (una casalinga non produce reddito ma se decide di lavorare crea un doppio reddito: il suo e quello della donna di servizio che dovrà assumere per le faccende familiari). L’acqua pubblica non ha un valore monetario, quella privata cresce ogni giorno di più. Venti anni fa una partita di coppa dei campioni trasmessa dalla RAI valeva zero PIL, oggi i diritti televisivi del calcio e di tutti gli altri sport valgono intorno al 2% del PIL.

Parallelamente il PIL ha assorbito la valorizzazione di prodotti/servizi umanamente patologici, senza per questo volere esprimere giudizi morali. Si pensi all’inedito PIL prodotto dalle scommesse di gioco, dal consumo di alcool, dal fumo, dalla pornografia, dal cibo spazzatura. Come se ciò non bastasse il PIL (nella sua veste reddituale) ha subito una profonda redistribuzione a favore dell’1% della popolazione che ai nostri giorni detiene il 40% del patrimonio e guadagna il 25% del reddito nazionale.

L’effetto combinato di queste tre inedite tendenze porta ad una stima di un’effettiva diminuzione del PIL “buono” (come direbbe Draghi) per il 99% della popolazione italiana nell’ordine del 50%!

Ecco spiegato il profondo malessere nazionale: mentre “l’oligarchia” racconta di una sostanziale tenuta del Paese, il 99% della popolazione subisce sulla propria pelle il dimezzamento del “PIL buono” pro capite.

Da qui, dunque, bisogna ripartire, per creare le premesse di una nuova politica economica nazionale nella consapevolezza che in questa manipolazione sta la diabolica capacità dell’1% di governare il 99%, pur essendo in una democrazia dove 1 vale 1 in termini di voti!

In altri termini, il Paese e quindi la politica democratica hanno bisogno di un nuovo indicatore di sintesi del benessere economico: il PILb99. Ovvero il prodotto interno lordo decurtato dei beni e servizi patologici (secondo una commissione nazionale di assoluto rigore scientifico) percepito dal 99% della popolazione.

Una riforma che non costa nulla ma ridarebbe un fondamento economico oggettivo alla rappresentanza democratica.

In questo contesto, e solo in questo contesto assumerebbero valore e incisività specifiche politiche tese alla riconnessione comunitaria del tessuto sociale del Paese.

 

La politica fiscale

La progressiva riduzione delle aliquote ad una è semplicemente scandalosa. Il fondamento originario degli scaglioni fiscali era la progressività contributiva delle diverse classi sociali individuate dagli stessi. Ridurre ad una aliquota significa affermare che davanti al fisco siamo tutti uguali. Di contro proprio per incidere sul PILb99 le aliquote vanno estese introducendone almeno 2 nuove: da 100.000 a 500.000 euro; ed oltre 500.000 euro. Così come le percentuali IVA andrebbero modificate in funzione del valore sociale dei prodotti/servizi.  In un paese demograficamente vecchio è scandaloso che i pannolini per bambini hanno un’aliquota come quella di una Ferrari. Ne è tollerabile il regime fiscale successorio per i patrimoni superiori a 10 milioni di euro.

 

La politica industriale

È ampiamente condivisa l’opinione che l’industria nazionale nell’ultimo ventennio non abbia brillato per innovazione ed efficienza. Di contro sono a tutti noti gli utili conseguiti. E’ lecito quindi dedurre che essi sono il risultato dell’evoluzione oligopolistica dei mercati dei diversi settori che vanno riformati per ritornare ad una vera concorrenza nella consapevolezza che la nuova “lotta di classe” non è più tra operai e capitalisti ma tra multinazionali e imprese territoriali. Si pensi al settore delle energie rinnovabili la cui “natura” frazionabile è stata mortificata da barriere all’entrata volute dai grandi colossi, con il risultato, già evidente ma non del tutto esplicito, di avere regalato al capitale internazionale un settore che in sinergia con l’agricoltura e l’edilizia pubblica avrebbe potuto produrre  nuova diffusa ricchezza: un potenziale grande asset strategico del Paese. 

In questa prospettiva assumono rilevanza tematiche specifiche di civiltà, quali una nuova regolamentazione degli allevamenti intensivi che andrebbero semplicemente eliminati, riportando gli animali alla terra; ripristinare il regime pubblico dell’acqua; avviare una profonda riflessione sull’obsolescenza programmata con particolare riguardo a quella di origine pubblica in specie nei settori della mobilità, nell’edilizia e delle nuove tecnologie.

 

La politica bancaria

Trent’anni or sono il sistema bancario nazionale registrava una originale composizione tra pubblico e privato, tra piccole e grandi realtà, tutte comunque in mano nazionali con una adeguata capacità di soddisfare la variegata domanda, nonché di veicolare il debito pubblico verso i portafogli italiani. Oggi assistiamo all’operare di un regime oligopolistico a controllo estero che registra rilevanti profitti con un debito pubblico prevalentemente in mani extra nazionali. Forse sarebbe il caso di una riflessione anche solo per riprendere in considerazione un processo di separazione tra banca commerciale e banca di affari. Anche se è evidente che la BCE non lo permetterà mai, almeno sino alla prossima crisi sistemica, che potrebbe essere indotta da un allargamento degli conflitti geopolitici, atteso che oggi non c’è rapporto tra il PIL mondiale e l’enorme quantità di ricchezza finanziaria.

 

La politica sociale

Un mondo sempre più complesso e dinamico riducendo  le relazioni e le certezze familiari, in uno con la instabilità lavorativa, accresce la domanda di protezione pubblica. Con questa consapevolezza occorre una nuova e ambiziosa politica sanitaria e formativa invertendo i trend privatistici. Ma non basta. Finita la polemica strumentale sul reddito di cittadinanza, occorre ripensare ad una misura che non lasci nessuno senza cibo, servizi essenziali e casa.