Nella particolare circostanza dei funerali di Michele Ferrero, il figlio Giovanni ha tenuto un discorso vibrante e profondo per ricordare la figura del padre. Un uomo che guardava con lungimiranza al futuro con la volontà di creare una fabbrica dal volto umano nella quale le pratiche volte alla delocalizzazione e alla razionalizzazione non avrebbero mai messo piede. Un imprenditore attento ai dipendenti e al sociale ma, come lo stesso Giovanni Ferrero ha tenuto a ribadire, ben lontano dall’utopia olivettiana. Un’affermazione, questa, vera però solo in parte.
Vera in quanto Ferrero ed Olivetti, benché accomunati da una affine modalità di gestione dell’azienda, partivano da due concezioni diverse. Ferrero voleva creare una fabbrica dal volto umano; e anche Olivetti lo voleva, ma non si accontentava della fabbrica. A questa conclusione, l’inventore della mitica “lettera 22” giunse a soli ventiquattro anni “Quando partii in America nel 1925 mi proposi di studiare il segreto dell’organizzazione, per poi vederne i riflessi nel campo amministrativo e politico. […] Vedevo che ogni problema di fabbrica diventava un problema esterno e che solo chi avesse potuto coordinare i problemi interni a quelli esterni sarebbe riuscito a dare la soluzione corretta a tutte le cose”.
Falsa, invece, risulta l’affermazione se si intende l’utopia olivettiana in senso negativo. Purtroppo le avveniristiche intuizioni olivettiane furono sempre bollate come utopiche. Eppure, oggi, quelle sue intuizioni sono tornate di moda: coinvolgimento di cittadini e di pubbliche amministrazioni locali, distretti tecnologi, incubatori di idee, design e urbanistica, produzione decentrata ed economia civile contro economia capitalista. Nonostante questo, si tende ancora a vedere il suo progetto come qualcosa di irrealizzabile e senza concreta applicazione, benché i fatti dimostrino il contrario. E proprio per questo motivo nell’introduzione della mia tesi Una democrazia a misura d’uomo: la Comunità Olivettiana come luogo di risanamento politico socio-economico e morale ho messo in evidenza quanto Olivetti fosse sì un visionario, nell’accezione positiva del termine, ma più ancora un “utopista pragmatico”, come lo definì Ferruccio Parri. “Utopista Adriano lo era, poiché pensava in grande, ma era anche un pragmatico, perché commisurava i suoi ideali alla realtà esistente, in termini costruttivi, proponendo quelle che riteneva potessero essere le vie praticabili, le soluzioni più efficaci per mettere in atto i suoi propositi”.
Adriano, a mio giudizio, non fu solo uomo di idee (astratte). Del resto, il termine utopia è spesso associato all’irreale e omonima isola descritta da Tommaso Moro, dove la vita scorreva felice per tutti gli uomini e dove vi era piena tolleranza religiosa e nessuna forma di proprietà privata. Ciò nondimeno, l’utopia può anche diventare “una forza di trasformazione della realtà in atto, assumere abbastanza corpo e consistenza per trasformarsi in un’autentica volontà innovatrice e trovare i mezzi dell’innovazione”. Ed è esattamente questa la versione che si attaglia alla persona di Olivetti, come trapela dalla penetrante descrizione fatta da Valerio Ochetto: «Guardando una sua fotografia si è colpiti dagli occhi. Come ne erano colpiti gli interlocutori. Occhi grandi che sembravano fissarti, e invece ti avvolgono per guardare al di là di te. Occhi simili ho visto solo nel gran ritratto del Che Guevara allo sbarco all’aeroporto dell’Avana. Tutto divide i due personaggi, nulla hanno in comune, tranne quegli occhi. Occhi dei grandi visionari, per cui un’ isola o una singola città sono troppo piccole, perché hanno scorto le immagini di un mondo nuovo».
Quindi, sebbene diversi, Olivetti e Ferrero furono entrambi, usando una definizione di Joseph Schumpeter, “uomini tutto d’un pezzo e non piagnoni che si chiedevano continuamente e con angoscia se ogni sforzo a cui dovevano sottoporsi prometteva loro anche un sufficiente incremento di piacere. Costoro si sono preoccupati poco dei frutti edonistici delle loro azioni. (…) Tali uomini creano perché non possono fare altrimenti. Il loro agire è il momento più grandioso, più splendido che la vita economica offre all’osservatore e perciò appare misera una spiegazione statico-edonistica”.
Ferrero si fermò alla fabbrica e Olivetti andò oltre; ma sia l’uno che l’altro furono uomini tutti di un pezzo. E in ogni caso, la loro diversità di approccio non può essere la motivazione che serve a bollare, ancora una volta, in senso critico Olivetti come un utopista con la testa tra le nuvole. In fondo, se la “Olivetti” cominciò la sua parabola discendente dopo la morte del fondatore, non fu per colpa delle idee che questi aveva professato nel corso di una vita intera, bensì per responsabilità, né più né meno, di tutti coloro a cui quelle idee evidentemente andavano strette.