Al lettore del Domani d’Italia non bisogna suggerire chi è Giuseppe De Rita, fondatore e presidente onorario del Censis, il centro studi che da quasi 60 anni pubblica il noto Rapporto sulla situazione sociale del Paese, vera bussola per chi cerca di orientarsi tra le pieghe della società italiana.
Sulla soglia dei 90 anni, l’illustre sociologo dà alle stampe un volume (Oligarca per caso: il racconto della vita di un italiano alla ricerca degli italiani, Solferino 2024) che vuole essere un racconto autobiografico della sua lunga esperienza da “oligarca” con qualche riflessione per il futuro.
Nel 1951, il giovane De Rita viene «arruolato» nel castello di Sermoneta per i corsi di un’associazione civica ispirata, dietro le quinte, dagli Alleati per de-fascistizzare l’Italia del Dopoguerra. Da lì nasce una convinzione che mantiene per tutta la vita: l’oligarchia è uno strumento necessario per il buon funzionamento delle società moderne. L’oligarca, sostiene De Rita, può avere un ruolo positivo, anzi fondamentale, in una società disordinata e frammentata come la nostra. Questo perché l’oligarca “si muove in senso orizzontale, ha un tessuto e una rete di potere che non proviene dall’alto”.
Ciò detto per spiegare la differenza tra oligarca e gerarca, il cui potere viene meno quando cade – sovente in disgrazia – il suo dante causa (“dal 25 luglio 1943 ai giorni nostri”, chiarisce l’autore).
Il potere dell’oligarca, invece, risiede nella capacità di tessere rapporti in linea orizzontale con quelle 2-300 persone che in una società complessa come la nostra possono regolare singole materie ma hanno sempre il bisogno di confrontarsi collettivamente con gli altri.
Ben presente nel libro il legame con i poteri forti, in particolare con il ‘salotto buono’ di Cernobbio, in cui l’Avvocato Agnelli lo definisce – con una certa perfidia – “l’amico degli stracciaroli di Prato”. In realtà c’era una ragione, come spiega l’autore: “a Torino scoprimmo che molti fornitori Fiat erano gli stessi operai Fiat che facevano il secondo lavoro. A Roma, da una ricerca spot su alcuni ministeri, venne fuori che il 90% degli impiegati al pomeriggio si improvvisava idraulico o falegname. Persino gli autisti degli autobus, spesso e volentieri, la sera diventavano i gestori delle prostitute di Tor di Quinto, guadagnando più così che con lo stipendio, col risultato che nessuno voleva fare i turni di notte…”. E’ la scoperta dell’economia sommersa, aggettivo “impronunciabile” per molto tempo.
L’elenco degli oligarchi citati è lungo: a partire da quelli fondamentali per i rapporti atlantici dell’Italia nel dopoguerra (Raffaele Mattioli e altri), da Angelo Costa a Eugenio Scalfari, da Ugo La Malfa a Riccardo Misasi, da Gianni Letta (forse il principe degli oligarchi) a Romano Prodi.
Gerardo Chiaromonte era, per la sua capacità di relazione, “il vero oligarca del Pci, il più intelligente di tutti i comunisti italiani”. “Giorgio Napolitano – prosegue De Rita – aveva grandi sospetti su di me fino a quando gli dissi che ero amico di Chiaromonte”.
Un altro nome che appare più volte nel libro è quello di Giulio Pastore, il padre fondatore della Cisl e più volte ministro per il Mezzogiorno. A lui, a Vincenzo Saba e ad Enzo Scotti è dedicato uno dei tanti episodi gustosi che costellano il libro di De Rita (e che qui non sveliamo).
Tra gli oligarchi del sindacato sono menzionati Giuseppe Di Vittorio e Bruno Trentin. In particolare, agli anni della presidenza De Rita del Cnel (1989-2000) è dedicato un intero capitolo. I nomi di grandi personalità di quella stagione sono numerosi: tra questi, sono da ricordare Pierre Carniti e Franco Marini.
Tra i tanti documenti elaborati dall’autore, viene ricordato in particolare un rapporto del 1968 sul futuro della Rai (in un periodo di sostanziale monopolio televisivo), la relazione per il Convegno sui “mali di Roma” promosso dal Vicariato di Roma nel 1974 e la relazione sulla “evangelizzazione e promozione umana” preparata per il convegno della Cei nel 1977.
Molte le confessioni personali: gli otto figli (anche se lui ne voleva dodici “come le tribù di Israele”), la casa di Courmayeur, l’importanza della fede, la passione per il calcio. A delinearsi è, in definitiva, non solo una biografia appassionante, ma anche una rilettura della storia del Paese attraverso lo sguardo di un suo testimone d’eccezione.