La progressiva uscita dalla crisi offre un’opportunità: agire prioritariamente sull’offerta, facendo finalmente quella manovra economica e sociale che non è stata fatta, mai veramente, negli ultimi decenni, i cui mancati effetti positivi si stanno pagando ancora oggi.
Può esserci, dunque, la disponibilità di risorse finanziarie per una innovativa manovra di politica economica. Può essere avviata un’azione incisiva, di promozione e realizzazione di programmi di crescita della produttività per poter competere nel mercato globale.
Investire, cioè, prioritariamente, nella formazione, nella cultura, nel digitale, nelle tecnologie innovative, nell’efficientamento della macchina amministrativa.
L’Italia è cresciuta quando è stata data importanza ai processi di accumulazione reale. In quegli anni virtuosi, (anni del miracolo economico) nelle imprese, prima di tutto, si pensava ad investire per aumentare la produttività reale, con l’obiettivo di raggiungere l’Europa più avanzata.
In quella congiuntura, si è stati competitivi, così da far crescere la produzione per effetto dell’allargamento della propria quota di mercato, in particolare all’estero.
Il denaro delle banche era funzionale a ciò. Non si finanziava la speculazione; veniva supportato l’investimento nell’innovazione dei processi produttivi e dei prodotti.
Questo scenario, va evidenziato, non è mai stato (salvo nei primi decenni post guerra) al primo posto nell’agenda della politica. A giustificazione, c’è stata (come alcuni storici hanno ben analizzato) la questione della “legittimazione” democratica della Repubblica; e la via scelta è stata quella del creare potere d’acquisto per soddisfare l’arretratezza sociale mediante l’accesso in massa ai consumi “familiari” (auto, frigoriferi ecc.). Diversa, allora, la strada della Germania: prima l’efficienza della struttura produttiva, poi il benessere diffuso.
I risultati negativi italiani si vedono, oggi, in termini di ridotto potere di acquisto, soprattutto dei gruppi sociali più deboli, ma anche i ceti medi stanno soffrendo.
Inoltre, negli anni settanta e ottanta, di fronte ai problemi strutturali che la positiva crescita della produttività negli anni precedenti aveva creato, si è preferito, nel mondo delle imprese e della finanza, ritenere che l’idea imprenditoriale vincente fosse prioritariamente la remunerazione finanziaria del capitale proprio dell’impresa. Il bilancio in utile veniva fatto con i proventi da “speculazione finanziaria”; e le banche stettero al gioco. Prevalse la “finanza creativa”, di cui ancora oggi si pagano le conseguenze del guadagno facile.
Nelle fabbriche e nelle banche gli investimenti ritenuti migliori sono stati quelli che producevano redditi mediante una combinazione dei fattori finanziari, passando in seconda linea la virtuosa combinazione del fattore lavoro e di quello capitale, a cui bisognava aggiungere l’innovazione (conoscenza).
In una logica di breve periodo (arco temporale predominante nelle scelte di politica economica in Italia) prevale la speculazione finanziaria: il miraggio del guadagno elevato e immediato. I casi di crisi aziendali e bancari, provocati da questa logica, sono noti.
Interessa al nostro ragionamento evidenziare che molti “esperti di grido” hanno assicurato che la “ricchezza” finanziaria avrebbe sostenuto gli investimenti produttivi ed in particolare quelli immateriali. Così non è stato.
Il mondo dei capitali ha fatto il suo gioco ed ha insegnato, ancora una volta, che non è certo il libero mercato che fa una politica industriale selettiva e finalizzata al raggiungimento di equilibri economici più avanzati a medio-lungo termine.
Già negli anni settanta, era stato evidenziato, nell’analisi sui settori industriali italiani e sui loro ritardi competitivi, che gli sviluppi tecnologici futuri, che avrebbero attraversato, orizzontalmente, tutti i campi, dall’informatica all’agroalimentare, richiedevano politiche di sostegno agli investimenti strutturali. Poi, in seguito, sarebbero state proficue le azioni di incentivazione della domanda di consumi.
Nella stessa direzione portavano i già presenti processi di globalizzazione. Dalle fabbriche manifatturiere, alle banche, agli istituti di ricerca, l’urgenza sarebbe stata quella di investire nel medio-lungo termine, gestendo la velocità del progredire tecnologico.
Le forze politiche e sociali (i sindacati in primis), invece, preferiscono dare priorità alla domanda di aumento dei consumi quotidiani. Hanno prevalso gli accordi “corporativi” con il sindacato soprattutto in occasione delle tante campagne elettorali. Si è preferito seguire la via della ricchezza fatta con la speculazione bancaria e con l’avventurismo nella finanza.
Nel complesso, mentre negli anni della ricostruzione c’è stata una giustificazione istituzionale alla prevalenza dei consumi rispetto agli investimenti; ora, dopo avere analizzato i limiti del miracolo economico degli anni sessanta, non c’è giustificazione razionale al dare preferenza alla logica elettorale del beneficio a breve termine.
Queste scelte, fatte nel passato, sia dalla maggioranza sia dall’opposizione, sono state un freno alla creazione di nuova ricchezza reale ed un forte incentivo a favorire le varie bolle speculative.
Un falso luogo comune è stato credere (ad arte?) che gli incentivi a pioggia, dati per vivacizzare la domanda di consumo, potessero produrre l’effetto che il lavoro produttivo crescesse.
Non esiste un automatismo di questo genere (la storia economica lo ripete in continuazione). Anzi, tecnologia e globalizzazione sono fattori che, se sono lasciati a se stessi, producono squilibri, in particolare la riduzione dei livelli d’occupazione.
Infatti, basta osservare molto semplicemente il quotidiano; ad esempio, in banca non c’è più la necessità di recarsi agli sportelli: il personale è stato sostituito dalla tecnologia. E così via.
Nel caso del settore bancario, come in altri settori, è mancata la capacità e la forza imprenditoriale di investire nel medio periodo per “convertire” l’attività caratteristica. Le imprese ed i singoli investitori sono stati lasciati soli di fronte ad un mondo in profondo cambiamento.
In Italia, il sistema produttivo e la crescita della produttività hanno avuto un rapporto sempre molto complesso e difficile. Negli altri paesi più avanzati, europei e non, cresce, in continuo, la produttività. Da noi, no. Infatti, vi è una netta divergenza tra l’andamento italiano della produttività e quello dei principali concorrenti, a danno del sistema italiano.
Il mito, tutto italiano, del piccolo è bello ha sufficientemente deviato l’attenzione dallo scenario competitivo internazionale. Infatti, le piccole imprese italiane hanno mediamente una produttività molto inferiore ai concorrenti europei.
Perseguire, dunque, investimenti nell’economia reale. Non è facile, dati i numerosi nodi negativi da sciogliere, riporre al centro dei processi di accumulazione l’economia reale. Va ridimensionata, innanzi tutto, la finanza speculativa ed il facile guadagno a brevissimo termine. La crisi del 2008 dovrebbe essere maestra di saggezza.
Alle banche è richiesto di cambiare la loro missione: credere nel finanziamento dell’innovazione, della formazione, degli investimenti tecnologicamente avanzati, sostenere la globalizzazione delle imprese. Una finanza al servizio del nuovo mondo della produzione.
Significa, anche, avere la forza e la capacità di ridimensionare il “bancocentrismo” italiano; bisogna rivedere la qualità delle linee di finanziamento attuali alle imprese (l’80-85% dei finanziamenti alle aziende sono di origine bancaria), Le banche devono cooperare per sfatare il vecchio detto (fondato) che dice che le imprese italiane sono povere, mentre i padroni sono ricchi. È, molto spesso accaduto, che gli utili realizzati in azienda non siano restati in azienda sotto forma di investimenti produttivi, bensì sono entrati a far parte del patrimonio personale dell’imprenditore, sovente per inseguire il sogno di arricchirsi con la speculazione finanziaria.
Il ruolo della politica: abbandonare l’arco temporale, a breve termine, della soddisfazione delle attese corporative dell’elettore, per farlo protagonista nel medio termine di benessere e ricchezza duraturi.
Dunque, la domanda è di una reale ripresa della politica industriale, negli ultimi anni abbastanza emarginata, per ottenere un riposizionamento del sistema produttivo: più produttività, più competitività, più qualità concorrenziale del sistema.
Più crescita, cioè, per una riconquista di effettivo benessere e per una rinnovata redistribuzione della ricchezza, secondo la nuova domanda di giustizia sociale e di difesa dei gruppi sociali più deboli, a cominciare dai giovani.
Non solo, recenti acquisizioni di società italiane da parte di capitale estero sono più espressione di una “colonizzazione” che di un arricchimento tecnologico del sistema produttivo. D’altra parte, l’imprenditoria italiana, progressivamente, sta lasciando il posto a imprenditori esteri, attratta dalla prospettiva di immediati significativi realizzi monetari.