Che cosa resta dell’Europa, oggi, nel cuore di chi la abita? È ancora il sogno dei suoi padri fondatori o si è ridotta a una macchina fredda e impaurita, incapace di riconoscere sé stessa. In un tempo in cui alziamo muri più velocemente di quanto costruiamo scuole, in cui la voce della guerra sovrasta quella del dialogo, abbiamo il dovere, non la possibilità, di tornare a riflettere sul senso profondo dell’incontro tra popoli. Perché l’Europa, se vuole avere un futuro, deve riscoprire il coraggio di essere ponte e non confine, luogo di sintesi e non di separazione.
Noi, sostenitori di un’Europa equa, multilaterale e solidale, non possiamo permetterci di diventare un polo fra i poli, una potenza tra le potenze. La nostra vocazione non è quella della competizione, ma della cooperazione. Per questo dobbiamo strutturare con forza e coerenza la più totale difesa del principio di autodeterminazione dei popoli, indipendentemente dalle condizioni economiche, geopolitiche o culturali in cui essi si trovano. Come disse Papa Francesco, In un mondo lacerato, “disarmare le parole”, diventa il primo passo per disarmare i fatti.
Allo stesso modo, il nuovo pontefice Leone XIV ha ribadito il valore e l’urgenza di aspirare a una pace disarmata e disarmante, fondata sull’umiltà e sulla perseveranza. Egli ha dichiarato, cito testualmente: “Aiutateci anche voi, poi, gli uni gli altri, a costruire i ponti con il dialogo, con l’incontro, per essere un solo popolo, sempre in pace”.
E proprio oggi, nel guardare agli scenari futuri, non possiamo ignorare la più pressante delle tensioni: quella tra pace e guerra. L’ordine internazionale appare investito da una crisi profonda, attraversato da conflitti bellici, guerre economiche, polarizzazioni ideologiche e il preoccupante declino delle democrazie. Di fronte a tutto questo, la costruzione della pace non può più essere rimandata, né affidata a formule vuote o a tregue provvisorie. Non possiamo accontentarci di una pace fragile, ma dobbiamo ambire a una pace positiva, duratura e fondata sull’unità.
È bene chiedersi: siamo davvero giunti a un punto di non ritorno nella storia mondiale? Le crisi attuali stanno definitivamente prendendo il sopravvento? Le risposte non sono univoche, ma una certezza resta: la guerra è un sistema perverso. Contamina tutto ciò che tocca, semina divisioni, non solo tra le nazioni, ma anche all’interno delle comunità, delle associazioni, dei gruppi e persino tra coloro che condividono ideali comuni.
Ed è proprio qui che la cultura dell’incontro rivela tutto il suo valore. La storia d’Europa è, da sempre, una storia di incroci, ibridazioni, contaminazioni: una ricchezza che nasce dall’intreccio e non dall’uniformità. È attraverso il dialogo, lo scambio, la conoscenza reciproca che le società si sono elevate, superando paure e stereotipi, aprendosi a nuove prospettive.
Questa verità attraversa tanto la storia quanto la letteratura. Nel mondo greco del VI e V secolo a.C., ad esempio, si riflette chiaramente la tensione tra identità e alterità. In Erodoto, il “padre della storiografia”, troviamo un’attitudine che potremmo definire protocosmopolita: nelle Storie egli racconta non solo guerre, ma anche religioni, usi e costumi dei popoli stranieri, come quelli egiziani o persiani, con uno spirito di rispetto e apertura.
Anche il teatro greco ci offre esempi emblematici: nelle Supplici di Eschilo le Danaidi cercano asilo e giustizia. È un grido di aiuto che chiede accoglienza, ed è un monito sulla responsabilità morale che ogni comunità ha nei confronti dello straniero. Il mondo greco, pur geloso della propria identità, seppe dunque esprimere un’apertura profonda verso l’altro, comprendendo che l’incontro tra popoli è sempre occasione di crescita.
Lo stesso spirito anima la Dichiarazione Schumann. Nel 1950, in un’Europa ferita da due guerre mondiali, Francia e Germania – nemici giurati – scelgono di incontrarsi, di cooperare, di condividere. La proposta di mettere in comune la produzione di carbone e acciaio fu un gesto politico, sì, ma prima ancora un atto simbolico di riconciliazione. Fu il seme di una nuova Europa: non più costruita sul dominio, ma sulla solidarietà.
Oggi più che mai, quell’eredità deve tornare a essere guida. L’Europa non può e non deve tornare a logiche di chiusura. Deve restare uno spazio aperto, un laboratorio di ponti tra popoli, culture e visioni del mondo.
In questo contesto, il cosmopolitismo si impone come il naturale prodotto della cultura dell’incontro. Esso non significa cancellazione delle differenze, ma riconoscimento della loro dignità. L’obiettivo non è la fusione, ma la composizione armonica: mettere in comune le diversità
in vista di un bene più grande.
L’Europa, in questa prospettiva, deve riscoprire sé stessa come soggetto universalista. È una vocazione che le appartiene da sempre: pensiamo al vecchio Socrate, che si definiva “cittadino del mondo”, o al più moderno Kant, che sognava una pace perpetua tra le nazioni. Il cittadino europeo è colui che affonda le radici in una cultura locale, ma alza lo sguardo verso l’universale. Libertà, dignità, diritti: non privilegi per pochi, ma valori per tutti.
E allora, che Europa vogliamo essere? Un continente che si rinchiude per paura o uno che si apre per coraggio? La scelta ci interpella ora, non domani. Se vogliamo davvero onorare la profezia della Dichiarazione Schumann, se crediamo che la pace e l’incontro siano ancora possibili, dobbiamo smettere di pensare in termini di confini e iniziare a pensare in termini di ponti. Perché la vera grandezza dell’Europa non sarà misurata dalla sua forza economica o militare, ma dalla sua capacità di farsi spazio d’incontro, di umanità, di visione. E questo, oggi più che mai, è il nostro compito.