La ricomposizione dei Popolari appare inscindibile dalla loro iniziativa politica che si realizza solo rompendo gli indugi e tuffandosi in mezzo alle questioni più dibattute del nostro tempo. Continua il dibattito sulla scia degli interventi di Fioroni e De Mita.
Giuseppe Davicino
Mi pare che davanti al tema che pone con grande acutezza Giorgio Merlo, quello della necessità di una qualche forma di riorganizzazione della rappresentanza politica dell’arcipelago del cattolicesimo democratico e sociale, proprio in ragione di un irreversibile pluralismo politico dei cattolici e come risposta alla mutazione genetica del Partito Democratico, tutte le altre questioni in qualche modo vengano dopo. Perché se non si è in qualche forma presenti nella competizione politica, si fa semplicemente altro; cose altrettanto importanti come formazione o cultura politica.
La ricomposizione dei Popolari si configura come operazione indispensabile che nel contempo implica la definizione di una politica per questo nostro tempo. Mi sono parsi, a tal proposito, molto significativi i recenti interventi di Giuseppe Fioroni e di Giuseppe De Mita su queste colonne. Il primo sostiene la necessità di definire quale sia la causa politica per la quale farsi promotori di nuova mobilitazione verso un corpo elettorale che manifesta vasti e crescenti segni di disaffezione verso l’offerta politica attuale . Il secondo pone per i Popolari la necessità di esprimere una capacità di visione che sia espressione di un metodo che ha come suo criterio l’uomo.
Mi sembrano questi i due fuochi attorno a cui si può sviluppare una proficua discussione politica, in un vitale e irrinunciabile rapporto di interazione con l’aspetto organizzativo. Da parte mia, scusandomi per la necessaria schematicità, credo che il modo per parlare a quell’elettorato che è deluso dal Pd, che si è rifugiato nell’astensionismo o che ha dato un voto al centro destra, non di appartenenza ma occasionale e quasi solo per disperazione, sia quello di proporsi come forza affidabile rispetto ai rischi di possibili derive, sulle questioni che più incidono e incombono sul nostro futuro, che sono anche le questioni da cui maggiormente dipende la scelta elettorale nel suddetto blocco sociale.
Tra queste questioni – non vuole essere un elenco, piuttosto uno spaccato della sfera delle priorità con cui misurarci e offrire a noi e agli elettori motivi di coinvolgimento politico – c’è sicuramente il tema della pace. La fermezza del nostro Paese sull’Ucraina non esclude il riconoscimento dell’esigenza di una discussione su un immediato cessate il fuoco anche per superare quel clima internazionale di estremizzazione delle posizioni che richiama quello antecedente alla Prima Guerra Mondiale. E soprattutto c’è bisogno di una forza politica che discuta su quanto e a quale prezzo sia sostenibile l’unilateralismo come criterio per l’approccio ai problemi internazionali e che discuta anche dei pregi, oltre che dei rischi, del multipolarismo.
Un’altra area di problemi sulla quale è impensabile presentarsi al giudizio degli elettori senza una visione, è costituita dall’ambiente. Il concetto di ecologia integrale va sviluppato e coniugato nel concreto, se si vuole che gli elettori ne percepiscano il suo significato di alternativa al fondamentalismo ambientalista al quale dobbiamo in larga misura l’attuale crisi energetica europea che sta mettendo in apprensione tante famiglie e imprese. Non solo ne deriva una incompatibilità di fondo con il partito della decrescita, il M5S, ma ci costringe a riflettere sulla svolta impressa dagli Stati Uniti in favore delle nuove fonti di energia, come la fusione nucleare, e su una necessaria gradualità con cui procedere alla rinuncia delle fonti fossili, anche facendosi promotori di una campagna per la revisione di scadenze già fissate e impegni già presi a ogni livello. In campo ambientale vi sono tante finestre di Overton aperte (come da ultima quella sulla promozione in Europa di una alimentazione a base di insetti), che destano inquietudine e sconcerto fra i ceti popolari e lavoratori.
Infine, vorrei citare un’altra questione attraverso cui passa in concreto la definizione di una specificità, di un compito, e alla fine, di una reputazione davanti agli elettori, per i Popolari contemporanei: quella della transizione digitale. Puntare a qualificarsi come luogo di discussione politica su una introduzione e gestione delle nuove tecnologie che abbia come criterio ultimo la persona umana, significa compiere anche un’operazione di lungimiranza politica. La Commissione Europea ha annunciato che già nel corso di quest’anno presenterà un progetto legislativo per l’introduzione dell’Euro digitale. La moneta digitale della banca centrale costituisce una potentissima innovazione (anche per effetto della sua combinazione con i nuovi strumenti di controllo e di sorveglianza) le cui ripercussioni potrebbero cambiare il volto della finanza pubblica, del sistema creditizio, del welfare, delle libertà economiche personali e aziendali. Ambire a presentarsi come la componente politica che intende guidare l’innovazione componendola con il bene comune e la dignità della persona, e allo stesso tempo che intende chiudere alla deriva verso il sistema della cittadinanza a punti, con cui sembra flirtare la sinistra, può rilevarsi una scelta oltre che saggia, anche elettoralmente non peregrina.
Un segmento di elettorato disilluso ma esigente, come quello dei ceti intermedi, probabilmente è alla ricerca di forze politiche che risultino affidabili rispetto alla capacità di definire un autonomo progetto di società, ma senza i rischi di autoritarismo insiti nella destra e senza la subalternità mostrata dalla sinistra a visioni di società calate dall’alto dai poteri forti transnazionali ma che prescindono dalle istanze della classe media.
Per queste ragioni credo che la riuscita organizzativa del progetto di ricomposizione dei Popolari sia inscindibile da quella della loro iniziativa politica che si realizza solo rompendo gli indugi e tuffandosi con criterio in mezzo alle questioni più dibattute del nostro tempo.