Premierato, senza riforma del Parlamento la democrazia è  in pericolo.

Non può valere più un rapporto in cui il governo esegue ciò che il parlamento determina mediante la legislazione, ma serve invece un modello orientato al controllo del parlamento sul governo.

L’impressione che si ha e che induce senz’altro a stigmatizzare i termini  del dibattito politico-culturale, ma anche il contenuto della discussione che si svolge in sede di commissione affari costituzionali del senato circa la riforma per l’introduzione nel nostro ordinamento del premierato è che si continui ad affrontare un tema della massima importanza per le sorti future del Paese secondo una cifra operativa contrassegnata da superficialità istituzionale e strumentalità politica. Più che cercare la costruzione di nuovi equilibri del sistema costituzionale con l’introduzione di un cambiamento come l’elezione diretta popolare del presidente del consiglio la sensazione che si ha, infatti, è che l’intento del governo e della sua maggioranza proponente sia piuttosto quello di stabilizzare e bilanciare i rapporti di forza all’interno della compagine governativa.

Se così non fosse non si spiegherebbero il continuo armeggiare intorno alla norma introduttiva del cosiddetto “secondo premier” o l’introduzione della possibilità per il premier di chiedere ed ottenere lo scioglimento delle camere solo in caso di dimissioni “volontarie” e non anche a seguito di rigetto della mozione di fiducia posta dal governo, che implica necessariamente le dimissioni di quest’ultimo; o, ancora, il recente accordo nella maggioranza per la introduzione di un emendamento teso a trasformare la fiducia al solo premier in un atto di legittimazione rivolto all’intero governo. Ma, soprattutto, non si capirebbe la completa dimenticanza delle sorti del parlamento in una riforma che ha, come proprio oggetto, la modifica del sistema di governo parlamentare e quindi dell’organo centrale di rappresentanza della Repubblica. In ordine a quest’ultimo, invece, nessun cenno diretto né al suo ruolo ed alle sue funzioni né alla sua struttura. Come se il parlamento dovesse essere cancellato per l’emergere di una sola dimensione della istituzionalità repubblicana: quella della governabilità propria di una “democrazia decidente”.

Ora, non è certo questa la sede nella quale si può affrontare adeguatamente l’idea di democrazia che emerge da questo approccio aparlamentare che sembra derivare dalla convinzione che le camere altro non siano che il luogo dei “compromessi”, degli “inciuci” e, in ultima analisi, delle “perdite di tempo”. E nemmeno si intende qui dare particolare consistenza al sospetto serpeggiante nel dibattito che il progetto del governo intenda marcare una profonda discontinuità nel modo di concepire la democrazia delineato dalla Costituzione repubblicana e fondato sui partiti politici e la partecipazione popolare. Al più, con questa sottolineatura della intenzione seppure solo sospettata di un cambio di democrazia, ciò che si vuol evidenziare è la possibilità di una certa deriva personalistica e populistica che investirebbe le nostre istituzioni repubblicane facendole scivolare verso un modo autoritario di concepire ed organizzare la governabilità. Per il resto, poi, il punto della “riforma Meloni” che si vuole pur brevemente illustrare è quello inerente il ruolo e la funzione del parlamento in un sistema di premierato che certo non può consistere solo nella elezione diretta del presidente del consiglio e nel rafforzamento dei suoi poteri di nomina e di determinazione dell’indirizzo politico con il parlamento “messo all’angolo”.

E quindi veniamo subito al dunque, cominciando dall’incredibile scelta di lasciare immodificato l’art. 94, 1° comma, della Cost. secondo cui “il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”. Immediatamente, tale opzione sembrerebbe dettata dalla volontà di mantenere il rapporto tra governo e parlamento nello status quo ante per non mettere in discussione l’equilibrio istituzionale  proprio della forma di governo parlamentare e così dare la sensazione che l’elezione diretta a suffragio universale del presidente del consiglio innovi esclusivamente sul versante del rapporto delle istituzioni con gli elettori (che conquisterebbero così il potere di essere loro a scegliere il governo) e non delle istituzioni fra di loro. In modo tale, cioè, che non si possa dire, come fa una parte dell’opposizione, che la riforma indebolisca il parlamento spostando il baricentro (della determinazione dell’indirizzo) politico sul versante del governo.

Ma nulla è più sbagliato di ciò! Perché la necessità di dover da parte del governo godere della fiducia delle due camere implica che la maggioranza di queste ultime sia omogenea a quella che ha eletto il premier e quindi che venga (eventualmente) integrata fino al raggiungimento di un quorum (l’originario del ddl uscito dal consiglio dei ministri prevedeva il 55%) per evitare che il governo possa essere sfiduciato, addirittura, prima di entrare nella pienezza delle sue funzioni. Il che, chiaramente, significa che le liste ed i candidati collegati al presidente del consiglio godranno di un premio non nel rispetto del principio di rappresentatività ma nell’intento di rafforzare quello di governabilità. Quindi non per rispettare la centralità del ruolo delle due camere ma per subordinarlo a quello del premier. Che, diventando così l’unico vero global player del sistema istituzionale, finisce con l’assumere una posizione dominante in grado di influenzare tutte le scelte strategiche del Paese imponendole alla sua maggioranza parlamentare. Con l’aggravante, poi, che si pensa di potere dare poteri così ampi ad una sola persona senza che questa venga eletta ottenendo il suffragio della maggioranza e cioè del 50% più uno dei votanti.

Ora, per ottenere quest’ultimo risultato, si può scegliere la formula che si vuole ma da un’investitura maggioritaria non si può prescindere! Tranne a voler mettere ancora più a rischio la democrazia. Che non può essere, certo, assicurata contrapponendo a questo rilievo che già nel nostro ordinamento si danno casi di elezione di presidenti di regione e di sindaci con quorum minoritari. E ciò perché, in questi casi riguardanti istituzioni locali circoscritte, la legittimazione della loro elezione è comunque garantita, per riflesso, dal sistema nazionale sicuramente democratico.

Ma non è solo questa l’anomalìa del modello premierale che si vorrebbe introdurre nel nostro sistema repubblicano. Anzi, ancora più grave risulta l’idea di volere modificare il ruolo del governo senza contemporaneamente pensare di dover mettere mano alla funzione legislativa del parlamento, palesemente non più in grado di reggere il tempo e lo spazio della odierna società nazionale. Qui, come è facile intuire, il discorso dovrebbe innanzi tutto riguardare un punto cruciale degli attuali ordinamenti: il ruolo della legge e la sua crisi irreversibile, con la contemporanea emersione della antica ma finora residuale funzione di controllo delle assemblee parlamentari.

In questa sede, però, è sufficiente sottolineare che questa ‘riemersione’ della funzione di controllo potrebbe  costituire la nuova sfera baricentrica dell’odierno sistema politico rappresentativo. A patto, però, che nella nuova forma di governo premierale il rapporto tra governo e parlamento non si basi più sulla continuità, seppure capovolta, della funzione esecutiva e di quella legislativa (che implica, a monte, poi una necessaria relazione fiduciaria) ma si fondi piuttosto sulla diversità della funzione di governo da quella di controllo che incontrandosi in una relazione funzionale  con la prima instauri fra i due organi un rapporto di integrazione che ne valorizzi i ruoli di responsabilità e rappresentanza politica.

Insomma, il rapporto governo-parlamento con l’introduzione del premierato non può consistere più nell’attuazione di un legame per la esecuzione della funzione legislativa da parte del primo (il governo) ma deve trasformarsi in un rapporto di controllo del secondo (il parlamento) sull’attività del governo. Circostanza che, come già alcuni studiosi hanno evidenziato, favorirebbe senz’altro la creazione di un nuovo ambito istituzionale idoneo ad esercitare una nuova e più efficace forma di democrazia rappresentativa.

Democrazia ancora più incisiva, se a questa trasformazione funzionale si aggiungesse, poi, contestualmente (come prevede un emendamento presentato da Italia Viva) la riforma strutturale dell’attuale bicameralismo paritario con la introduzione del senato delle autonomie. In  modo tale da inserire accanto alla rappresentanza politica nazionale della camera dei deputati quella territoriale delle comunità locali e regionali così rafforzando in maniera decisiva il ruolo del parlamento a fronte di quello del nuovo presidente del consiglio eletto direttamente solo dal corpo elettorale nazionale. Non è una quistione di secondaria importanza né, peggio ancora, da ritenere estranea alla tematica che ci occupa. Perché un senato che dia visibilità e voce alle comunità locali ed ai territori non solo consente alle istituzioni che li organizzano e li impersonano di contare di più nelle sedi nelle quali si decide per gran parte il loro destino ma apporta al parlamento ed al suo ruolo di rappresentanza una forza capace di moltiplicarne la cifra politica e quindi di rilanciarne la capacità di incidenza negli equilibri costituzionali ben al di là del potere di accordare o revocare la fiducia al governo. Che, è bene sottolineare, anche se legittimato dal voto popolare diretto del suo premier, non sarebbe comunque sottratto -in virtù della funzione di controllo che il parlamento esercita su di esso- ad un sindacato politico in grado di arrivare fino alla sua rimozione qualora si spingesse a violare norme e principi che incidono sull’indirizzo politico-costituzionale.

Capisco che il discorso è alquanto complesso e meriterebbe ben altro livello di esplicazione. In questa sede, però, è sufficiente sottolineare che non è conseguenza ineluttabile dell’ elezione diretta-popolare del capo del governo la subordinazione del parlamento a quest’ultimo. E né meno la messa in pericolo della democrazia rappresentativa. Ciò che preoccupa, piuttosto, è la ‘leggerezza’ con la quale la maggioranza pensa di affrontare una riforma che mette in discussione la forma di governo voluta dai nostri Padri costituenti senza preoccuparsi minimamente della ricostruzione degli equilibri costituzionali che inevitabilmente si devono infrangere.

Con la consapevolezza che, se diversamente, non c’è che dare credito ad un’intenzionale iniziativa del governo per cambiare il paradigma democratico in direzione di un potere sempre più personalistico e plebiscitario!