Presidenzialismo o Sindaco d’Italia sono slogan e con gli slogan si perde tempo.

Il tema di una Democrazia più efficiente esiste, ma anche stavolta può finire nel nulla. Occorrerebbe lavorare su un quadro organico: la rappresentanza, la stabilità dei governi, l’efficienza della Pubblica Amministrazione.

Nei Palazzi di Roma si discute di Riforme Costituzionali. Qualcuno dice che non è esattamente ciò di cui discutono le famiglie italiane a tavola. Altri parlano di una iniziativa di “distrazione di massa” rispetto ai problemi del Paese. Sarà anche vero. E tuttavia il tema di una Democrazia più efficiente esiste da decenni. E non si può non affrontarlo. Anche su questo tema, in Italia, recentemente, si vince con proposte populiste e si prova poi a governare cambiando registro.

La Destra ha sbandierato in campagna elettorale lo slogan dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Una pratica presente in tanti Paesi democratici, certo, ma palesemente incongrua nel nostro impianto costituzionale e nella nostra esperienza storica. Ed infatti, oggi pare archiviata. Si prova a ripiegare sull’idea del “Sindaco d’Italia”: vale a dire, l’elezione diretta del Capo del Governo.

Anche questa subordinata, però, punta a risolvere il problema della Democrazia e della sua efficienza con soluzioni semplificatorie e nient’affatto coerenti con le dinamiche istituzionali di uno Stato (che non è un Comune e neppure una Regione).

Penso comunque che sarebbe un male se – per l’ennesima volta – questa discussione finisse nel nulla. Però occorrerebbe lavorare su un quadro organico capace di dare risposte ai tre problemi strutturali della democrazia italiana degli ultimi decenni: la rappresentanza; la stabilità dei governi; l’efficienza della Pubblica Amministrazione. Sono tre problemi reali che non si risolvono con “soluzioni ad effetto”, ma con una iniziativa coerente e sistematica. Insomma, più con la precisione di un cacciavite che con la grossolana rumorosità di una ruspa, il cui guidatore peraltro non pare saper bene dove scavare.

Primo. La rappresentanza. Occorre prendere atto della crisi profonda che attanaglia lo strumento a ciò preposto dalla Costituzione: i partiti politici. Negli ultimi tempi ci si era illusi che la Democrazia potesse funzionare senza partiti, oppure con un loro mero simulacro. Da ultimo, si è pensato che bastasse un leader più o meno carismatico, accompagnato da una massa indefinita ed impersonale di tifosi. Ma così le cose non funzionano affatto. E il professor Giuseppe De Rita, con la sua lucidità, lo ha ricordato recentemente in una bella intervista al Corriere della Sera: senza partiti “veri”, la Democrazia diventa effimera contabilità di “solitudini” in continua transumanza da una illusione politica all’altra – salvo poi ripiegare sul non voto – proprio in una fase storica che mette a dura prova il concetto stesso di “comunità” e la tenuta dei legami sociali.

Per questa ragione, diventa prioritario – da un lato – ricomporre e rigenerare le culture politiche (sono la vera benzina della buona politica) e – dall’altro – dare finalmente attuazione all’art. 49 della Costituzione, con una Legge che preveda una disciplina democratica dei partiti. Nello stesso tempo occorre ormai immaginare nuove “forme partito”, a partire da un diverso protagonismo della società civile e dei territori.

Secondo. La stabilità dei governi. Nella cosiddetta Prima Repubblica, finché quel sistema funzionava, i governi cambiavano spesso, anche dopo pochi mesi, ma non cambiavano le politiche: esse erano garantite da cicli politici che sopravvivevano ai governi via via modificati, spesso per ragioni di equilibri interni ai partiti. Nell’epoca più vicina ai nostri giorni, la caduta dei governi – senza che ci sia una alternativa in campo – comporta invece la paralisi delle strategie, con conseguenti pesanti effetti sulle prospettive del Paese e sulla sua credibilità politica ed economica a livello europeo ed internazionale. Ed infatti, quando proprio l’acqua arrivava alla gola, è toccato al Capo dello Stato (per fortuna) imporre un governo “tecnico”. Il problema, dunque, esiste e va affrontato. 

Personalmente credo ad un rafforzamento del ruolo del Premier ma non credo all’ipotesi di una sua diretta elezione popolare. Soluzione che peraltro non è affatto diffusa negli ordinamenti occidentali. Di sicuro, questa opzione indebolirebbe oltre misura il ruolo del Capo dello Stato così come previsto in Costituzione: un ruolo da tutti ritenuto essenziale in base anche all’esperienza concreta degli ultimi decenni, nei quali questa figura ha assicurato equilibrio e tenuta generale del sistema democratico. Se eleggerlo direttamente renderebbe automaticamente il Capo dello Stato “di parte” e non più “garante”, eleggere direttamente il Premier, lo renderebbe figura marginale e priva dei necessari poteri sia formali che sostanziali. Rafforzare i poteri del Premier senza scassare l’equilibrio costituzionale attuale è invece del tutto giusto e possibile. Proposte in tal senso ci sono state e ci sono. 

Aggiungo. C’è un tema che fa da filo rosso tra il punto della rappresentanza e quello della stabilità dei governi: è il sistema elettorale. Quello vigente è un pasticciato miscuglio tra proporzionale e maggioritario, ormai del tutto incapace di interpretare le dinamiche politiche del nostro tempo e assolutamente inadatto a garantire un rapporto tra elettore ed eletto.

Terzo. L’efficienza della Pubblica Amministrazione. Non tutto è “politica”. C’è anche l’Amministrazione, che deve mettere a terra le scelte politiche – quando ci sono – e deve garantire il buon funzionamento delle strutture pubbliche. Ed anche questo ha molto a che vedere con la vita democratica. Di tale aspetto non si discute seriamente. Le uniche scelte che spesso si fanno, in emergenza, riguardano la nomina di “commissari”, con più o meno poteri effettivi. Ma non può essere una soluzione. Personalmente credo che questo sia invece l’aspetto forse più impattante per la tenuta dell’ordine democratico. Perché ogni giorno rischia di demolire la credibilità delle Istituzioni e di far sorgere una domanda patologica di “qualcuno che comandi”, non che “governi”. Oppure la spinta a risolvere i propri problemi cercando benevolenze nel potere o – per chi può – soddisfazione nelle offerte di servizi privati.

Regole che si aggiungono a regole; strutture burocratiche che si aggiungono a strutture burocratiche; poteri locali, regionali e statali che non trovano una base comune di leale collaborazione; dirigenze apicali spesso definite con una interpretazione volgare dello spoil sistem; depotenziamento quantitativo e qualitativo del pubblico impiego, sovente mortificato nella sua dignità professionale; interferenze spesso irragionevoli tra procedure amministrative e procedure giudiziarie; indebolimento del principio di responsabilità come difesa rispetto al rischio generalizzato di sanzione da parte della magistratura contabile; inadeguata transizione al digitale della PA: sono tutti capitoli della grande questione che riguarda l’efficienza e la produttività della macchina pubblica del nostro Paese. Anche in questo caso, non si risolve nulla con gli slogan di forte impatto mediatico ma di breve momento.

In conclusione, ciò che serve è un faticoso e duraturo lavoro di ricostruzione della Politica, delle Istituzioni, del loro buon funzionamento, anche operativo. Non si vede traccia percepibile di tutto ciò, almeno per ora. Altro che slogan tipo Presidenzialismo o Sindaco d’Italia!