Prof. Andreoli, oltre il dato strettamente clinico, in quale punto possiamo porre il limite di confine tra normalità e patologia nei comportamenti umani? Come possiamo definire la follia? Fino a che punto possiamo spiegarla?
Vede, il comportamento umano, cioè di ogni uomo, dipende da tre fattori: il primo è il fattore biologico, che significa ‘come è strutturata la genetica di ciascuno’, ‘come è conformato geneticamente il cervello di ciascuno’. Questo elemento biologico è molto importante ma non è sufficiente perché altrimenti arriveremmo a quel riduzionismo molecolare che era nato con il positivismo. A questo primo fattore dobbiamo aggiungerne un secondo che è l’esperienza: cioè il comportamento dipende anche dalla modalità con cui noi abbiamo vissuto il nostro passato e in particolare da come abbiamo vissuto l’infanzia, importantissimi sono i primi tre anni di vita.
Non c’è dubbio quindi che le nostre esperienze passate incidano sul comportamento attuale.
Il terzo fattore è legato all’ambiente: il nostro comportamento, oltre che dalla biologia, oltre che dalla personalità che si forma sulla base delle esperienze, dipende anche dall’ambiente in cui viviamo, ambiente che va inteso geograficamente ma soprattutto come relazioni umane e quindi dipende molto dal tipo di rapporto che noi stabiliamo con le altre persone, sia da un punto di vista di ruolo sia da un punto di vista sentimentale.
E allora, quando noi vogliamo capire il comportamento dell’uomo e vogliamo anche attribuirgli un significato di ‘normalità’ ovvero di ‘patologia’ o dargli comunque tutte le specificazioni possibili, noi dobbiamo tener conto di questi tre fattori e da qui si vede anche che la distinzione può non essere facile.
Come si può spiegare da un punto di vista clinico che nella coscienza e nella mente di una persona – magari ritenuta da tutti e nei suoi contesti abituali di vita “un soggetto apparentemente normale” – esploda improvvisamente l’irrazionalità, l’abnorme sentire, ciò che può dar luogo a comportamenti imprevedibili e inspiegabili, anche a gesti estremi di violenza o di autolesionismo? Quel tarlo esisteva anche prima –sopito – ed è emerso per una causa scatenante oppure il gesto irrazionale si spiega con un raptus che non appartiene al suo codice genetico? In altri termini, forse banalizzando: folli si nasce o si diventa?
Dunque, da come le ho detto, in realtà la follia è un insieme di biologia, di esperienze e di ambiente
e quindi è chiaro che ciascuno di noi avrebbe potuto fare esperienze diverse, vivere ad esempio in un ambiente completamente diverso, sia rispetto alle persone che incontra sia per dove vive e per la società stessa.
Quindi è chiaro che c’è una componente ‘storica’, non è più possibile quindi parlare di un destino fissato, determinato.
Però – vede – quando ci sono delle persone che noi definiamo assolutamente ‘nella norma’ e compiono gesti che sono inaccettabili, che vanno fuori dalla norma, beh qui bisogna stare attenti perché molte volte noi crediamo di conoscere le persone, ma le persone non sono esattamente per come si presentano perché c’è dentro di loro un’intimità, c’è una personalità profonda che spesso è segreta e che qualche volta – appunto – quindi non traspare nella maschera che noi presentiamo comunemente.
In ultimo bisogna ricordare che dal 1900 – con la nascita della psicoanalisi e quindi con la nascita dell’inconscio (nasce nel 1900, esattamente con il libro ‘L’interpretazione dei sogni’ di Freud) sappiamo che c’è dentro di noi qualcosa che può essere segreto a noi stessi.
Quindi l’affermazione -“conosco una persona”- le garantisco che è un’affermazione che dovrebbe essere fatta con molto maggiore prudenza.
E’ indubbio però che certi comportamenti che esplodono inattesi risentono molto anche della società in cui viviamo, degli stimoli continui, sono veicolati da una condizione di stress legata alla follia del mondo perché questa è una società estrema, che ci richiede di essere sempre attivi, di avere successo e quindi le domande che pone sono tali che certi soggetti deboli ‘non ce la fanno’
Pensiamo alle psicopatologie della vita quotidiana e facciamo alcuni esempi: la ripetitività maniacale dei gesti, le sindromi ossessivo-compulsive, il lavarsi un’infinità di volte le mani, le nevrosi, la paura del contatto con gli altri e con gli oggetti, persino i rituali scaramantici: fino a che punto si possono attribuire a comportamenti inconsueti e fino a che punto invece sono indice di pulsioni sopite, di tensioni represse, vere e proprie valvole di scarico di schizofrenie più complesse? Dove risiede la loro matrice: nel disagio psichico o nella sofferenza emotiva? Servono forse a compensare problematiche esistenziali più radicate, concentrando in un gesto, in un’azione delle latenze interiori che meritano uno scandaglio più profondo? Oppure vanno circoscritte ed accettate se ci permettono di contenere e gestire le pulsioni?
Guardi, all’origine di tutta questa grande fenomenologia dei comportamenti ‘malati’ c’è la paura, questo meccanismo che dovrebbe difendere l’uomo perché in questa maniera, attraverso la paura si possono prevedere dei rischi ma talvolta è una paura così forte che finisce per portarci da una parte, a darci una insicurezza incredibile, a non fidarci più, ad appartarci, a sentirci soli.
Quindi la ‘paura’ è un nucleo che genera una quantità tale di difficoltà di vivere che ci portano sempre più a dare risposte che non sono accettabili, che non sono nella norma: lei pensi alla solitudine.
La solitudine non possiamo definirla di per sé una patologia perché si può essere dimenticati, ci si può trovare in una situazione in cui appunto rispetto alla stessa esistenza non veniamo nemmeno visti, siamo dei ‘trasparenti’: la solitudine altera completamente il modo di pensare perché aumenta la paura, si pensa che tutti gli altri scappino da noi perché non siamo accettabili e quindi ci convinciamo poco alla volta che non siamo adeguati a vivere.
E se non siamo adeguati a vivere allora si comincia a fantasticare sulla morte.
Quindi è la paura la matrice: questa sensazione drammatica dell’esistenza che ci fa sentire che è così difficile vivere al punto che persino la paura diventa ‘paura della paura’, ‘paura di vivere’.
Parliamo della paura. Esiste una paura di ciò che si vede e si avverte, di pericoli che possiamo materializzare e descrivere e una paura più nascosta, ancestrale, un timore dell’ignoto – quello che una certa filosofia spiega come il”mal di vivere”- di cui non riusciamo a capacitarci e che produce una sofferenza, se vogliamo, ancora maggiore e più intensa. Sono due categorie mentali semplificative o due modi di essere della nostra angoscia interiore?
Ecco, vede che lei stesso nelle domande che ha preparato ha toccato la paura, che è il punto essenziale.
Di questa società si dice che la caratteristica principale è la violenza e non v’è alcun dubbio che questo sia un mondo violentissimo: violenza fisica ma anche violenza dalle ‘belle maniere’, di chi non ti guarda nemmeno in volto, di chi ti considera come se tu non esistessi nemmeno.
Quindi, vede, io dico sempre questo: “se tu vuoi capire la violenza devi prima sapere che cos’è la paura”.
Perché anche nei casi estremi, anche quelli in cui la violenza è arrivata alle cronache più assurde, ebbene anche lì, se si gratta un pochino, si scopre che sotto c’è una paura straordinaria, una paura del mondo, una paura degli altri e anche una paura di sé stessi.
Perché quando si è molto insicuri, quando non ci sono punti di riferimento ebbene si teme anche il proprio comportamento e quindi si arriva anche a quell’assurdo esistenziale per cui uno ha paura di sé stesso, è un po’ come se ci fosse un doppio, se uno fosse sdoppiato, come se volesse scappare dall’altro che però è pur sempre dentro di sé.
Vede, però c’è anche una paura ancestrale che è legata al limite della condizione esistenziale perché la morte è un limite che si può cercare di dimenticare ma è un limite costante, perché tutto può accadere in un secondo e ogni progetto di grandezza finisce con l’essere persino ridicolo.
Ecco, quindi che ci sono i limiti dell’uomo che vanno comunque compensati, ed ecco perché sono fondamentali le relazioni umane.
In un contesto esistenziale che ci rende fragili e sovraesposti ai pericoli del mondo e alle insidie delle relazioni interpersonali l’ansia è un’ espressione reattiva consueta e diffusa ma anche una forma di autodifesa: alzando forse la soglia della percezione alziamo anche quella del controllo e della risposta allo stress? E’ un’analisi semplificativa? L’ansia va combattuta oppure assecondata e conosciuta per essere affrontata? Quanto funzionano le terapie di convincimento, di persuasione: si può sempre “spiegare” ad un soggetto ansioso come comportarsi per sottrarsi a quella sofferenza spesso devastante? Esiste una spiegazione razionale che sopisca l’ansia?
Guardi, se una persona ha paura – e sovente l’ansia è una maschera della paura – è inutile spiegarle qual è l’origine dell’ansia o in che cosa consista.
La cosa migliore è abbracciarla, stringerla, farle sentire che si è con lei e forse la terapia più immediata è di dire “anch’io ho paura, anch’io ce l’ho avuta e sono qui con te per condividerla”.
Questo, per rispondere alla sua domanda, ci riporta però alla parola chiave che è ‘fragilità’.
Lei sa che ho scritto questo libro -‘L’uomo di vetro’- (Rizzoli, 2008) in cui cerco di cambiare proprio uno degli elementi di questo umanesimo patologico che si fonda sul potere, sul concetto di ‘uomo forte’ che è in grado di sottomettere gli altri o comunque di tenerli come spettatori del proprio narcisismo forte.
Io invece sostengo che la fragilità – che non ha niente a che fare con la debolezza – è appunto la condizione umana che avverte il senso del mistero e del limite in cui ci si trova e questo naturalmente dà insicurezza.
Però la fragilità ha in sé un bisogno che è il ‘bisogno dell’altro’: cioè la fragilità è una forza che ci porta ad aver bisogno dell’altro, a legarci all’altro.
E il legame con l’altro si chiama anche sentimento.
Allora, di fronte a persone che sono magari angosciate perché non raggiungono la posizione sognata, che non si sentono sufficientemente forti, perché la condizione esistenziale è dura, più che parlare della terapia dell’ansia bisognerebbe partire dal bisogno di capire la propria fragilità e di sapere che la propria fragilità – che abitualmente è considerata un difetto da nascondere – è invece una grande forza.
La più grande terapia è il legame, è l’amore.
L’amore che nella sua espressione più alta è appunto l’amore per ‘lei’ o per ‘lui’, o quello del padre per i figli, ma anche il legame di amicizia, quello sociale e di solidarietà.
Insomma la fragilità ci porta ad aver bisogno dei fragili come noi o diversi da noi con cui stabilire dei legami ed è appunto bellissimo l’amore in cui uno dice ‘io senza di te non potrei vivere’ e l’altra dice ‘io senza di te non saprei cosa fare’ : uno ha bisogno dell’altro e l’altra ha bisogno del primo.
Due fragilità danno certezze, quindi bisogna evitare il grande errore che abbiamo fatto con la medicalizzazione di ogni espressione esistenziale, proprio cercando di trovare le soluzioni all’interno della fenomenologia esistenziale e non solo nella medicina, non dei farmaci: queste deleghe per cui ormai – grazie alle medicine, agli specialisti, ai grandi nomi – ogni volta che vediamo qualcuno che ha bisogno di noi lo mandiamo invece dal medico..
Parliamo dei fenomeni di somatizzazione dello stress: è vero che le tensioni e i ritmi del vivere contemporaneo procurano danni e sofferenze di tipo organico paragonabili a quelli delle vere e proprie malattie fisiche? Sono le spie di un malessere interiore o la reazione organica abnorme ad un fattore esterno?
Ormai le neuroscienze hanno chiarito che mente e cervello sono due espressioni di una stessa entità.
In altre parole il cervello lo possiamo descrivere per quel poco che sappiamo con il linguaggio molecolare, anatomico, mentre la mente è la stessa descrizione fatta con un linguaggio comportamentale o ideativo.
Tra mente e corpo non c’è è solo unità ma sono due espressioni della stessa realtà e quindi, ormai, sappiamo che se siamo giù di morale, depressi o viceversa gioiosi ebbene il nostro corpo reagisce in maniera tra loro diversa e – altrettanto- se noi siamo preoccupati di un disturbo fisico, avvertiamo tutta una serie di limitazioni e sensazioni, ci sentiamo ad esempio tristi e malinconici.
Non c’è dubbio che ogni quadro esistenziale può essere descritto sia in termini di molecole che in termini di psiche.
Nel 1961 è avvenuta una delle più grandi scoperte che sono state fatte in questo campo e si trattava del famoso studio che dimostrò che le donne che avevano subito un lutto nei sei mesi precedenti ad una certa valutazione mostravano una percentuale più alta di tumore mammario: questo voleva dire che la malinconia, la depressione incidevano su una realtà organica di moltiplicazione cellulare che sembrava prima impossibile stabilire o connettere.
Questa osservazione adesso è assolutamente dimostrata in quanto si è visto che il nostro stato d’animo, la depressione incide sul sistema immunitario e quindi anche sulle difese dell’organismo: se uno è infelice prende più facilmente la stessa influenza.
C’è una unità psicosomatica alla base della condizione umana.
Quindi è assolutamente vero che ogni volta noi entriamo in una ‘crisi’ – e questa società ci aiuta molto in questo disastro di crisi – ebbene noi ‘stiamo male’, nel senso proprio esistenziale, cioè ‘totus homo’, stiamo male nella mente e nel corpo.
La depressione altera il nostro umore e condiziona i rapporti con gli altri, ci fa vedere una realtà deformata in chiave di percezione spesso totalmente negativa, ci priva della speranza e ci preclude il futuro. Fino a che punto può arrivare la psicoterapia e quando invece è necessario un trattamento farmacologico?
La depressione si fonda sostanzialmente su due principi: primo, la svalutazione di sé e del mondo e –secondo- la colpa di esistere, sono questi i due punti nodali.
Queste svalutazioni e il senso di colpa possono anche portare al suicidio e infatti la depressione è la condizione che contribuisce di più a questo exitus, a questa modalità di uscire dal mondo. Ebbene, ci sono delle condizioni acutissime, cioè nelle depressioni gravi, in cui si rendono assolutamente necessari i farmaci.
Non appena però la fase depressiva è uscita dalla dimensione critica, grave, allora bisogna incominciare a stabilire una relazione con quella persona perché se il farmaco cura ‘la malattia’, quando è acuta, la medicina deve occuparsi di curare ‘il malato’e questo malato è qualche cosa di unico, di irripetibile, e bisogna entrare nel suo mondo per aiutarlo a togliere le difficoltà, per ridargli quella che lei ha giustamente chiamato la speranza, per dimostrargli che la vita è comunque e sempre degna di essere vissuta, per poter stabilire relazioni affettive.
Nei comportamenti di alcuni bambini e adolescenti si manifestano modalità problematiche sul piano relazionale: difficoltà di gestione, agìti violenti e pericolosi, atteggiamenti spesso ingovernabili da parte della scuola, manifestazioni ipercinetiche. Questi alunni non sono disabili ma creano problemi di inserimento e integrazione nel contesto comunitario: non rispettano l’autorità e le regole, sono imprevedibili. Questa sindrome viene spesso curata con psicofarmaci per contenerne l’aggressività. Come Lei sa c’è un acceso dibattito tra fautori delle medicine, strenui oppositori e sostenitori dell’approccio definito ‘multimodale’: un mix tra psicoterapia e farmaci. Lei come la pensa?
Penso innanzitutto che la scuola debba cambiare, che si debbano considerare il bambino e l’adolescente a scuola come persone a cui bisogna insegnare a vivere, cosa spesso più importante che insegnare le campagne napoleoniche ed è assolutamente più importante aiutarle a vivere che ‘giustiziarle’ con un brutto voto, che è comunque un giudizio che può essere preso come un ‘giudizio esistenziale’.
Allora io penso che la scuola – soprattutto quella dell’obbligo – debba cambiare per aiutare questi ragazzi a vivere in un mondo difficile e la scuola non deve diventare parte della difficoltà del mondo.
La grande scommessa degli operatori della scuola è quella di diventare operatori per insegnare a vivere, il che non è contraddetto con l’insegnare le discipline: le materie devono essere veicolate come modelli per insegnare a vivere.
Restiamo in tema di bambini e adolescenti. Il bullismo è solo un atteggiamento comportamentale dell’età, una forma reattiva a termine oppure può preludere ad agìti di violenza più gravi, a modelli esistenziali negativi o a veri e propri atti criminali in un’escalation dove si perde il senso del limite e si prova l’ebbrezza del gesto folle ed eclatante, che va oltre la bravata? Il bullo è solo un irriverente spavaldo?
No, il bullo è una persona che ha bisogno di aiuto e lo chiede in una maniera inaccettabile e irresponsabile e quindi sono anche del parere che si vada a insegnare che le cose si debbano chiedere in un modo più accettabile.
Non è solo un problema dei giovani: pensi a cosa era e cosa è stata per anni – e io me ne sono occupato – la vita militare. Guardi proprio oggi leggevo -‘La pieve sull’argine’- di Don Primo Mazzolari e in questo bellissimo libro lui descrive una serie di comportamenti e si parlava già allora di bullismo.
Oggi questo termine si applica ai giovani mentre in realtà è un vecchio comportamento anomalo, sovente i bulli a scuola mostrano semplicemente il loro bisogno di aiuto, la loro è una modalità paradossale di chiedere aiuto, un’aggressività che esprime debolezza.
Professor Andreoli, le pongo una domanda di rito per tutti gli intervistati: perché è più facile che saggezza, armonia, senso della giustizia ed equilibrio interiore abitino l’anima delle persone semplici piuttosto che l’intelletto delle persone colte?
Qui la differenza è una sola: è il potere. Quelle che lei chiama le persone colte sono sovente persone che usano la cultura o l’intelligenza come strumento di potere.
Infatti il mondo è pieno di ‘giullari del potere’: se uno mi chiedesse come mi può offendere gli direi di dirmi ‘intellettuale’, io non voglio essere un intellettuale perché appunto gli intellettuali di oggi mostrano di essere dei mercenari del potere, dei giullari, nemmeno del re ma di piccoli uomini che contano ma che sono di un’ignoranza spaventosa.
Quindi le persone semplici sono descritte in altro modo, basta leggere il Vangelo insomma. La saggezza non è mai potere.
Ultima domanda. Ironia, sentimento, ragione, fede. A chi affidare la speranza nel futuro?
Io non ne posso più della ‘ironia’, adesso sono tutti spettacoli dove si deve fare ironia, satira: è tutta grande ignoranza. Invece la serenità è una cosa molto seria che si fonda sul rispetto dell’altro, sul saper vedere la positività nell’altro, sul sapergli sorridere invece di scappare. E’ ora di finirla di dire che l’ironia salva il mondo: è una idiozia. Ciò che salva il mondo è il rispetto dell’altro, fino a riuscire ad amarlo.